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Davide Landoni
Leggi i suoi articoliNon fioriscono in primavera, né si lasciano appassire dall’autunno. I Flesh Flowers della nuova mostra alla Fondazione Aïshti di Beirut sbocciano tra i margini della pelle e della tela nei territori incerti in cui il corpo e la pittura si intrecciano e si confondono. Sono opere nate per toccare, per sporcare, per insistere su quella materia viva che resiste anche in un’epoca saturata di immagini smaterializzate e pixel senza peso. Il corpo, nella sua verità più scomoda e viva, torna a reclamare spazio, e lo fa attraverso le mani e gli occhi di oltre settanta artiste, raccolte in un’installazione corale che segna il decimo anniversario – e la riapertura – della Fondazione libanese. Oltre duecento opere, tutte dalla collezione di Tony ed Elham Salamé, costruiscono un percorso stratificato e urgente, a cura di Massimiliano Gioni e Roberta Tenconi. Il titolo della mostra, preso in prestito da un’opera di Miriam Cahn, è eloquente: Flesh Flowers, fiori di carne, ossimoro visivo che evoca vulnerabilità e resistenza, bellezza e lacerazione.
La pittura, in queste opere, non è mai superficie. È corpo che pulsa, si sfalda, si trasforma. C’è il gesto di Cecily Brown, che fonde carne e colore in un abbraccio vorticoso. Le metamorfosi di Amy Sillman, dove le forme nascono dall’errore, dall’intuizione, dall’improvvisazione. Le anatomie impossibili di Joan Semmel, che guardano il corpo femminile da dentro, senza mediazioni. E poi Carolee Schneemann, Harmony Hammond, Laura Owens, Etel Adnan, Tauba Auerbach: voci diverse, spesso in contrasto, ma tutte necessarie, capaci di far vibrare la pittura fino a farla esplodere. Ciò che emerge è un’energia collettiva che attraversa generazioni, provenienze, genealogie diverse. Alcune artiste si muovono sul filo dell’astrazione, ma non per fuggire il corpo, piuttosto per reinventarlo. Altre affondano nella figurazione, ma lo fanno con uno sguardo obliquo, dissacrante, spesso femminista. In entrambe le traiettorie, la pittura è lo spazio di una negoziazione: tra l’identità e la sua rappresentazione, tra il gesto e il segno, tra ciò che si mostra e ciò che si sottrae.
Molti lavori in mostra sembrano nati contro lo schermo, negano la perfezione levigata del digitale opponendovi l’incoerenza della pelle, delle macchie, dei fluidi. In un’epoca che disincarna tutto, queste artiste ritornano alla carne come atto politico. Non per nostalgia, ma per dissenso. Le opere si muovono tra “astrazione eccentrica” e “figurazione vernacolare”, come la definisce il testo curatoriale. Ma è forse proprio in questa instabilità che si apre la possibilità più fertile. Quella di un linguaggio pittorico che non cerca più categorie, ma esperienze. Un linguaggio che abita il paradosso, del bello che diventa grottesco, del privato che si fa pubblico, del corpo che è sempre anche altro da sé.
A proposito di privato che si fa pubblico. Fondata nel 2015 da Tony Salamé, la Fondazione Aïshti è più di un museo. È un punto d'incontro tra Oriente e Occidente, tra linguaggi globali e radici locali. Sorge a Beirut come un organismo vivo, vulnerabile e tenace come la città che la ospita. In dieci anni di attività - ora ripresi dopo una sospensione forzata dalla guerra - la Fondazione ha costruito una delle collezioni di arte contemporanea più rilevanti al mondo, con oltre duemila opere che spaziano dalla pittura alla scultura, dal video ai nuovi media. Ma ciò che la distingue non è solo l’ampiezza del patrimonio raccolto, quanto lo sguardo consapevole sul presente. Uno sguardo che attraversa le fratture del nostro tempo, che mette in dialogo le tensioni del mondo con la forza visionaria dell’arte. Flesh Flowers non è solo una mostra, ma anche un nuovo inizio. Per l’istituzione, per la città, per chi continua a credere che l’arte possa ancora essere un luogo in cui resistere, immaginare, fiorire.