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Eva Helene Pade, «The sacrificial Dance (R)», 2024

Photo: Anders Sune Berg

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Eva Helene Pade, «The sacrificial Dance (R)», 2024

Photo: Anders Sune Berg

Eva Helene Pade: «Oggi è molto complicato dipingere il corpo femminile»

All’Arken di Copenaghen il debutto museale dell’artista danese con opere monumentali ispirate a Igor Stravinskij e Pina Bausch

A un anno dalla laurea, l’artista danese Eva Helene Pade, classe 1997 (originaria di Odense in Danimarca, vive a Parigi da oltre un anno), ha da poco aperto la sua prima personale istituzionale, «Forårsofret», al museo Arken di Ishøj, fuori Copenaghen. La mostra, curata da Rasmus Stenbakken e aperta fino al 31 agosto, presenta una serie di dipinti di grandi dimensioni, allestiti al centro di una sala e ispirati al celebre balletto di Igor Stravinskij «La sagra della primavera» del 1913 (da cui la mostra prende anche il nome, Forårsofret), nonché alla magistrale interpretazione dello stesso realizzata dalla coreografa Pina Bausch nel 1975. Il balletto racconta un mito pagano in cui una donna viene costretta a danzare fino alla morte come sacrificio propiziatorio per l’arrivo della primavera. Pade stravolge la narrazione sacrificale dell’opera trasformando la protagonista femminile in un punto focale di forza e capacità di azione, con un risultato potente e onirico. L’abbiamo intervistata.

Com’è nata la sua passione per l’arte e che cosa l’ha spinta a intraprendere questo percorso?
Non ricordo un momento preciso in cui ho capito che questa sarebbe stata la mia strada. I miei genitori erano molto attenti a espormi a diverse forme d’arte e credo che questo abbia lasciato un segno. Da bambina, disegnavo molto. Era un modo di osservare il mondo e processare le emozioni. Credo che sia partito tutto da lì. L’arte è sempre stata una passione, o forse anche un’ossessione.

Si è diplomata all’Accademia Reale Danese di Belle Arti l’anno scorso. In che modo quest’esperienza ha influenzato il suo approccio all’arte?
L’Accademia Reale Danese non dà molto spazio alla storia o alla teoria dell’arte, ma ha sicuramente portato la mia arte su una dimensione più seria, concreta, dandomi molta più sicurezza. Il percorso accademico dura sei anni, per cui si ha tanto tempo per sperimentare materiali e idee, per confrontarsi: ti apre la mente. Alla base della mia pratica artistica c’è sempre stato un nucleo interiore che rimane vivo ancora oggi.

«Forårsofret» è la sua prima personale in un museo. Com’è nata questa serie di opere e che cosa l’ha fatta avvicinare a «La sagra della primavera» di Stravinsky e all’interpretazione di Bausch?
La scintilla è scattata vedendo per la prima volta dal vivo una coreografia di Pina Bausch al Théâtre de la Ville di Parigi: ne sono rimasta folgorata. Da lì ho iniziato ad approfondire il suo lavoro e, anche se forse è «Full Moon» l’opera che preferisco, la sua versione de «La sagra della primavera» mi ha davvero colpito. Mi ha riportata alla musica di Stravinsky che è molto nota e mi è sembrata molto attuale. In generale la musica, soprattutto quella classica, mi aiuta molto a dipingere, mi permette di immergermi completamente nel lavoro, toccando qualcosa di primordiale. Così la musica di Stravinskij è diventata una sorta di punto di partenza per i miei dipinti, che poi sono diventati qualcosa d’altro. Non volevo che la musica diventasse una distrazione. Per questo non c’è colonna sonora nella mostra, né imitazioni sceniche della coreografia di Bausch. Ho lasciato che i dipinti prendessero la loro direzione.

Una veduta della mostra «Forårsofret» di Eva Helene Pade. Photo: Anders Sune Berg

La mostra esplora temi come il sacrificio e la violenza, con il corpo umano come elemento centrale. Tuttavia, si percepisce anche un forte senso di «empowerment», specialmente nel modo in cui rappresenta il corpo femminile. Può approfondire questo aspetto?
Io dipingo esseri umani. Le donne sono diventate centrali nel mio lavoro perché sono le persone di cui mi circondo maggiormente. Penso che all’inizio sia stata solo una traduzione diretta della mia vita e forse è proprio questa naturalezza che trasmette un senso di forza. Nei miei dipinti ci sono anche corpi maschili ma spesso sono androgini, quasi alieni. In generale non penso: «Ora sto rappresentando questo o quello», dipingo corpi e basta. In questo gruppo di opere però ci sono alcuni casi in cui il genere è più intenzionale. Mi sono resa conto di quanto la rappresentazione delle donne sia intrappolata in una narrativa prestabilita. Faccio un esempio: recentemente qualcuno, guardando un mio dipinto in cui sono raffigurate tre donne nude vicine tra loro, mi ha detto: «Ah, sono le tre Grazie!» e, onestamente, io non ci avevo pensato! Trattandosi di pittura figurativa è ancora più facile per le persone proiettare dei riferimenti sulle mie opere. Per questo è così complicato dipingere il corpo femminile oggi. Porto avanti il mio lavoro, pur sapendo che alle mie opere saranno attribuiti dei significati, nella speranza che un giorno i corpi che raffiguro riescano a parlare più forte del contesto in cui le persone vogliono inserirli. C’è solo un dipinto in cui ho fatto un riferimento deliberato alla storia dell’arte («Ritual of the Ancestors» riprende la composizione de «L’esecuzione dell’imperatore Massimiliano» di Manet, Ndr) e in quel caso ho cambiato tutti i personaggi in figure femminili. È stata una scelta ben precisa, perché sentivo la necessità di affrontare la storia dell’arte, ma a modo mio. Non c’è nessun tipo di nostalgia, solo desiderio di riflettere sul presente e guardare alla storia dell’arte come promemoria delle lezioni che abbiamo imparato, o avremmo dovuto imparare. Manet d’altronde aveva fatto lo stesso, facendo riferimento a «El tres de mayo» di Goya. Si tratta di portare avanti la conversazione, innescando nuove riflessioni.

La disposizione dei dipinti al centro della sala crea un’esperienza immersiva. Dal momento che le opere sono state realizzate appositamente per questa mostra, lo spazio del museo Arken ha influenzato il modo in cui le ha concepite o realizzate?
Assolutamente. La sala dove sono esposti è uno spazio fantastico per installazioni, video e sculture, meno per dei dipinti. Così abbiamo creato una sorta di scenografia che mettesse i dipinti in dialogo tra loro e con lo spazio. Le opere sono ispirate al teatro e al balletto dopotutto. Una cosa che mi ha piacevolmente sorpresa è l’effetto sul retro dei quadri. È sempre stato parte del piano che fossero visibili al pubblico, ma non mi ero resa conto di quanto questo potesse essere potente. Penso che aggiunga un ulteriore livello di complessità. Mi sembra anche che la maggior parte dei visitatori interagisca con le opere nel modo che speravo. Si muovono tra i quadri quasi come se stessero leggendo i capitoli di un libro, soffermandosi a riflettere. Spero che sia perché le trovano importanti; sfortunatamente, in un certo senso, considerando i temi trattati. In ogni caso, queste opere sono fuori dal mio controllo ormai, hanno vita propria. Io sto già lavorando a una nuova mostra ed è lì che voglio concentrare la mia attenzione.

Si riferisce alla sua prima personale con Thaddaeus Ropac a Londra prevista per quest’autunno? Ci può anticipare qualcosa? 
Esatto. Sto iniziando a lavorarci adesso. Dopo tre mesi di pausa ho finalmente ricominciato a dipingere. ll nuovo lavoro nasce dal precedente, ma sta già prendendo una sua forma autonoma. Ho anche altri progetti in cantiere, ma questo è quello di cui posso parlare per ora. Una novità è che sto iniziando a sperimentare con la scultura in argilla. È molto emozionante, perché per me è qualcosa di completamente nuovo. Anche se non porterà necessariamente a dei risultati concreti è semplicemente bellissimo lavorare in tre dimensioni quando si è abituati a lavorare su superfici piane.

In questo momento c’è una canzone, o anche un film, un’opera d’arte o un libro che ha un significato particolare o è fonte d’ispirazione?
I progetti a cui sto lavorando non credo avranno riferimenti specifici, ma c’è sempre della musica o della letteratura che mi influenza in sottofondo. Recentemente all’Osterfestspiele di Salisburgo ho ascoltato «Khovanshchina» di Musorgskij in una nuova versione in cui i vari finali di quest’opera classica incredibile e incompiuta sono stati ricongiunti magistralmente. Ciò che mi ha davvero ispirata però è stato l’uso delle ombre nella scenografia. Mi è rimasto molto impresso e i miei prossimi lavori si concentreranno molto su ombre e illusioni.

È rappresentata da due gallerie di rilievo nel panorama dell’arte contemporanea: Galleri Nicolai Wallner di Copenaghen e Thaddaeus Ropac. Questo riflette una tendenza più ampia delle mega gallerie di rappresentare giovani talenti. Che cosa significa per lei, come artista emergente, ricevere questo tipo di supporto?
Entrambe le gallerie hanno un alto livello di professionalità e coerenza nel lavoro che fanno. Ho libertà creativa, ma non quella pressione costante di produrre sempre opere nuove. Finora ho ricevuto sia fiducia nel mio lavoro sia sostegno nel costruire una carriera solida, e ne sono molto grata. Oggi gli artisti emergenti sono molto più esposti e firmare con grandi gallerie può offrire molta protezione, se trovi quelle giuste.

Eva Helene Pade, «The sacrificial Dance (R)», 2024. Photo: Anders Sune Berg

Benedetta Ricci, 15 maggio 2025 | © Riproduzione riservata

Eva Helene Pade: «Oggi è molto complicato dipingere il corpo femminile» | Benedetta Ricci

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