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Lucia Leuci, «Bocca fonda», Gelateria Sogni di Ghiaccio, Bologna

Photo © Manuel Montesano

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Lucia Leuci, «Bocca fonda», Gelateria Sogni di Ghiaccio, Bologna

Photo © Manuel Montesano

Effervescente. Un’intervista con Lucia Leuci

Da Gelateria Sogni di Ghiaccio a Bologna una personale dell’artista multidisciplinare: «Mi interessa l’ambiguità: il gesto che scarta il lineare e compone un mosaico di sensi stratificati»

Da Gelateria Sogni di Ghiaccio a Bologna, fino al 17 giugno, è visibile la mostra personale di Lucia Leuci (Bisceglie, 1977), «Merda e luce». Sono esposte opere in vetro soffiato, una scultura in rame e alcuni tableaux realizzati con ferro, resine, perle e pietre semipreziose. La mostra è accompagnata da un testo di Caterina Molteni. Abbiamo intervistato l’artista.

Quando mi hai detto come avresti intitolato questa mostra sono rimasta estasiata: «Merda e luce» è una frase che brilla, potente e carica di energia. Da dove viene e perché l’hai scelta?
Il titolo «Merda e luce» è tratto da una raccolta di testi teatrali di Antonio Moresco. L’ho scelto perché incarna perfettamente la tensione che percorre il mio lavoro: un attrito costante tra spirituale e materiale, tra scarto e incanto. In Moresco, il linguaggio è sempre carne viva, capace di fendere la superficie e penetrare l’indicibile. Nelle mie opere cerco la stessa vibrazione: il gesto che unisce l’osceno al sacro, l’estetica pop alla vulnerabilità. Questo titolo, nella sua contraddizione bruciante, apre uno squarcio ed è da lì che passa la visione.

Il titolo per questa intervista, invece, lo abbiamo trovato assieme, al tavolo di un’osteria, notando come «effervescente» fosse ormai un termine desueto ma vicino a certe tue citazioni da film o canzoni di decenni addietro. Recuperiamo una parola come tu certe immagini della cultura popolare e quotidiana. Come mai?
Mi affascinano le parole invecchiate, quelle che sembrano aver perso il loro posto nel linguaggio corrente, come effervescente, con il suo suono retrò, da réclame, e la sua forza visiva ed emotiva. Nel mio lavoro accade qualcosa di simile: recupero frammenti pop, scarti visivi e riti quotidiani. Le parole come le immagini, quando rimosse, dimenticate, hanno spesso più potere evocativo di quelle al centro del discorso. Rianimarle è un atto affettivo e politico insieme. Mio nipote piccolo ha sentito questa parola per la prima volta quando mio padre gli ha chiesto se preferisse acqua naturale o effervescente. Si è meravigliato, rapito da quel nuovo suono. L’ha scritta su un post-it, come per capirla meglio o trattenerla: un gesto che parla di attenzione, memoria, archiviazione spontanea. Conservo quel foglietto nella cover del mio cellulare.

In mostra parli di architettura ostile, sacchetti di deiezioni canine e chewing gum spiaccicati per strada. Raccogli centinaia di fotografie di asfalto crepato: catturi il degrado e tutto ciò che, attraversando la città, ci disturba o ci fa storcere il naso, facendoci forse invidiare città straniere ordinate e impeccabili. La tua ricerca eleva gli elementi di incuria a icone pop e mistiche.
Attraverso questi elementi cerco una forma di resistenza visiva. Tracce di una corporeità metropolitana, ferite che parlano di sopravvivenza, scarti che diventano decorazioni involontarie. L’architettura ostile è un insieme di strategie progettuali pensate per allontanare o escludere determinate presenze dalle aree condivise. Sono dispositivi che negano l’uso spontaneo dello spazio pubblico e rifiutano i corpi considerati fuori norma. Raccolgo quei segnali e li restituisco come testimonianze materiali, come frammenti di un paesaggio che qualcuno ha tentato di silenziare. È un modo per rinegoziare il contesto urbano spingendo lo sguardo oltre la decorazione, verso l’imperfetto e il disturbante.

Accade spesso che i tuoi titoli siano citazioni, alle quali di solito, nei testi scritti da te che accompagnano le esposizioni, ne aggiungi altre prese da ambiti disparati della cultura. Come mai?
I titoli sono come portali: aprono un varco immaginativo e sensoriale. Le citazioni mi aiutano a creare un campo di risonanza, un tessuto simbolico in cui opere e parole si rifrangono. Che siano versi di Montale, un frammento di trap o una battuta teatrale, queste voci si intrecciano e generano un cortocircuito: come Majakovskij che parla di sputi chiamati perle o Battiato che canta Gesualdo, principe assassino e musicista sublime. Mi interessa proprio questa ambiguità: il gesto che scarta il lineare e compone un mosaico di sensi stratificati.

Pensando ai tuoi scritti: sono fondamentali per comprendere le opere o potrebbero vivere da soli, magari in una raccolta?
Credo che i testi possano esistere anche autonomamente restando comunque legati al mio modo di lavorare: la scrittura diventa per me uno strumento imprescindibile. Nasce in una fase embrionale e si collega sempre alla realizzazione delle opere. Scrivere per me è un modo per chiarire il progetto, innanzitutto a me stessa. È un tempo preparatorio finalizzato a definire il contesto, le intenzioni e le tensioni interne al lavoro. Sarebbe bello raccogliere i testi in un’unica pubblicazione, non per raccontare un percorso chiuso, ma per documentare l’evoluzione di un pensiero e delle domande che lo hanno guidato, un modo per restituire anche la complessità del processo, non solo l’opera finita.

Questa intervista è cominciata nella tua casa studio. In uno spazio singolare, che pullula di tue opere che finiscono per trasformarsi in oggetti della vita quotidiana. Una vita quotidiana sempre in bilico tra sfera reale e mondi immaginifici in cui sembri immersa, nei quali si mescolano le informazioni che ricavi dalle esperienze esterne e si trasformano in immagini. Il tuo lavoro di creazione è frutto di un procedere che si insinua nelle attività quotidiane, scandendo il tempo delle incombenze inevitabili, spesso tracimando in esso. Quale e quanto spazio concedi alla progettazione? 
La mia casa studio è un ambiente dinamico e ogni elemento è funzionale allo sviluppo dei miei progetti. Ogni cosa segue un ordine: le azioni quotidiane si trasformano in momenti di osservazione e intuizione e accompagno con cura ogni fase del processo creativo. Accolgo gli imprevisti, che spesso si rivelano fonti di ispirazione inattese. L’immaginazione, per me, non è solo evasione, ma strumento concreto per analizzare e comprendere ciò che mi circonda.

Una veduta della mostra «Merda e luce» di nella Gelateria Sogni di Ghiaccio, Bologna. Photo © Manuel Montesano

Matilde Galletti, 03 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

Effervescente. Un’intervista con Lucia Leuci | Matilde Galletti

Effervescente. Un’intervista con Lucia Leuci | Matilde Galletti