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Chiara Caterina Ortelli
Leggi i suoi articoliL’artista colombiana Delcy Morelos (Tierralta, 1967) presenta la sua prima personale in Germania alla Hamburger Bahnhof di Berlino, dall’11 luglio al 25 gennaio 2026. L’opera «Madre», pensata in risonanza con lo spazio espositivo, intreccia un dialogo diretto fra la natura, le cosmologie amazzoniche e andine e le opere di Joseph Beuys, esposte nella collezione permanente. L’abbiamo incontrata.
Come nasce la mostra «Madre» alla Hamburger Bahnhof? Qual è stato il punto di partenza e quale obiettivo si è posta nel dialogo con questo spazio?
Ogni volta che arrivo in uno spazio in cui espongo, non parto mai dalla tabula rasa. Per me lo spazio è, ed è tanto. È importante iniziare da un buon rapporto con lo spazio. Non voglio che l’opera sembri in contrasto con lo spazio o che non riesca a capirlo. Si creerebbe un conflitto energetico, e io non voglio che lo spettatore percepisca questo. Voglio che senta di non voler più uscire da quello spazio, che si fermi. Più che progettare una scultura, io progetto un’esperienza che ha a che fare con la relazione con lo spazio. Sono partita da lì e da quello che sono io, una donna a cui piace mescolare la terra con elementi che generano ricordi allo spettatore. Ho anche curato l’opera con cannella e chiodi di garofano affinché non sviluppi funghi, e così non solo si preserva ma sprigiona anche un aroma che evoca memorie, come cucinavano la nonna, la mamma. Attraverso questi profumi, si mescolano le forme. Tutto parte da lì: dallo spettatore, dallo spazio, da tutto ciò che sono io, dal mio amore per le piante, per la terra, per la sua divinità. Quest’opera è come se stessi impastando tutte queste relazioni. Da quest’impasto, alla fine esce un pane!
Che ruolo hanno avuto la curatrice Catherine Nichols e le opere di Joseph Beuys nella sua riflessione?
Conosco l’opera di Joseph Beuys da quando ero alla scuola d’arte. A me piaceva molto. Lo capisco molto a modo mio, quindi non capisco tanto, ma qualcosa sì e qualcosa di importante: che cos’è la magia. Anche Beuys sapeva molto di magia, la applicava nella sua opera e ne parlava. Da lì ho iniziato un dialogo con le opere di Beuys. Tutte quelle che ho visto nel corso della mia vita, mi hanno lasciato come un profumo, un’essenza. E da quell’essenza ho iniziato questo dialogo. Poi Catherine mi parlava spesso di Beuys. E c’è una qualità importantissima per me, ed è l’umiltà. Quindi le ho detto: Catherine, io m’inginocchio davanti a questo spazio e davanti all’opera di Beuys. Farò la mia opera a partire da questa postura. Perché per me stare in ginocchio significa essere umile, essere in ascolto e in contatto con il sentire. Catherine mi rispose sorpresa, dicendomi che Beuys diceva che la creazione parte proprio dalle ginocchia. Non dall’inginocchiarsi, ma dalle ginocchia stesse, da quel punto di umiltà, dal silenzio dell’ego.
Il titolo della mostra è «Madre». Che cosa significa questa parola in tale contesto?
Per me si tratta della grande Madre Terra, la grande Madre della Natura. È una donatrice di alimenti, di vita, e di cura (cuidado). Al contrario di molte culture ancestrali, noi che viviamo nelle città dimentichiamo di renderle grazie per tutti gli alimenti che ci dona. Uno va al supermercato e compra il cibo. Questo rapporto fra la terra e l’alimento è molto diverso da quello che hanno le persone che coltivano la terra. Esse hanno un rapporto diretto con la Madre Terra perché vedono come gli alimenti nascono.
Ha iniziato a lavorare con la terra nel 2012 con l’installazione «Eva». Qual è la storia di quest’opera?
Ho inventata una mitologia intorno a Eva, che in realtà parlava della Pachamama, della Terra Madre. Però volevo darle un nome che fosse femminile e che fosse all’origine dell’umanità. In molte culture, si racconta che l’essere umano è generato dall’argilla e da un Dio che infonde un soffio di vita. Per me, tuttavia, non dovrebbe trattarsi di un padre, ma di una madre. Penso che il patriarcato non abbia mai riconosciuto fino in fondo l’importanza dell’energia femminile. Se le donne, quando il genere umano viveva nelle caverne, non si fossero prese cura dei bambini, noi oggi non esisteremmo come specie umana. Da lì mi rendo conto di quanto sia necessario parlare di cura. Noi non stiamo curando il nostro pianeta, lo stiamo maltrattando.
Lei porta la terra, letteralmente, negli spazi espositivi occidentali. Che cosa succede quando entra in questi ambienti?
Penso sia molto importante portare la terra in un contesto dove non c’era mai stata. Un po’ era già stato fatto, ma non mostrando che si deve curare la Terra. Per esempio, non mi sembra che questo aspetto facesse parte della Land Art, mentre nel mio lavoro sì, perché parto dalle tradizioni andine, nelle quali esiste una totale reciprocità fra l’essere umano, l’animale e la natura, ed è impensabile maltrattare la natura, perché è come se lo si facesse su noi stessi. Nelle mie ultime opere c’è un testo che indica allo spettatore come toccare l’opera: con cura, con affetto e con rispetto.
Lei si è definita una traduttrice: traduce infatti la lingua della natura in quella dell’arte. Quale messaggio intende trasmettere?
All’inizio noi vivevamo nelle caverne. Dani, il mio assistente, mi ha parlato molto di quella zona dell’Italia da cui lui proviene, Matera, dove si viveva proprio nelle caverne. Lì era tutto organico, rotondo. Ora viviamo in stanze quadrate. Ma nella natura il quadrato quasi non esiste. Sì, ci sono cristalli o pietre che possono avere una forma quadrata, ma non è frequente. L’uomo invece costruisce secondo geometrie e gli è sembrato molto pratico abitare in cubi, quadrati, rettangoli. Quindi quando porto la natura dentro quella forma geometrica, le persone la sentono come se fosse casa loro, mentre magari quando si trovano davanti a una montagna, quella non dice loro nulla. Il rapporto che abbiamo con la Terra non è metaforico, è concreto. Tutto quello che esiste proviene dalla Terra e tutta la Terra rientra sempre in sé stessa. Il ferro che dà il colore rosso alla Terra è lo stesso ferro che rende rosso anche il nostro sangue. E l’aria, il vento che muove le nuvole e gli alberi è lo stesso vento che respiriamo. Anche la plastica, che magari disprezziamo e che sembra qualcosa di artificiale, in realtà proviene dalla natura. I mattoni, il cemento dei muri, il vetro… Tutto viene dalla Terra. Per me questa cosa è incredibile, che tutto sia fatto di Terra, ma in forme diverse.
Che cosa ci insegna la Terra?
Quello che a me interessa maggiormente, in questo momento, è parlare della cura che dobbiamo avere per la Terra e per gli altri esseri umani, che sono anch’essi Terra. Nelle culture ancestrali delle Ande si dice che l’essere umano è Terra vivente. Gli indigeni della Sierra Nevada di Santa Marta in Colombia sostengono che prendersi cura della Terra è anche prendersi cura dell’altro essere umano. Tutti gli esseri umani sono qui per curare e per essere curati.

Una veduta dell’installazione «Profundis», 2024, di Delcy Morelos al Caac-Centro Andaluz de Arte Contemporáneo. © Courtesy die Künstlerin, Caac Sevilla and Marian Goodman Gallery / Pepe Morón