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Daniel Buren, «La facciata ai venti» (particolare), marzo 2025, Pistoia, Antico Palazzo dei Vescovi

Courtesy of Fondazione Pistoia Musei. Photo Okno studio, Ela Bialkowska © Db-Siae Roma

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Daniel Buren, «La facciata ai venti» (particolare), marzo 2025, Pistoia, Antico Palazzo dei Vescovi

Courtesy of Fondazione Pistoia Musei. Photo Okno studio, Ela Bialkowska © Db-Siae Roma

Daniel Buren, mago incantatore

Parte dal Palazzo Buontalenti di Pistoia, ma si allarga virtualmente ai 300 siti italiani che ospitano suoi lavori, una grande mostra: «Il suo linguaggio ha adattato all’era industriale la semplificazione arcaica e supremamente elegante dell’araldica»

Solo un paio di volte, in vita mia, ho goduto nel Perdermi. Entrambi i luoghi sono nascosti nelle pieghe più verdi della Toscana profonda. Il primo è il Castello di Ama, a Lecchi in Chianti: fuori dallo spazio espositivo, allestito da Galleria Continua nella penombra stillante d’una cantina plurisecolare (dove si possono ammirare, fra gli altri, Louise Bourgeois e Anish Kapoor), lo spazio esterno è ritagliato da un muro invisibile, nel quale cinque finestre paiono aprirsi nel nulla: in effetti lo fanno in una parete specchiante. Lo spiazzamento è tanto sottile quanto radicale: si viene proiettati in uno spazio fuori dallo spazio, in un tempo fuori dal tempo. Il secondo luogo è la Tenuta di Celle, fra Prato e Pistoia: ossia la Contrada magica costruita da Giuliano Gori per la sua impareggiabile collezione all’aria aperta (anche qui non mancano i giganti: da Fausto Melotti a Richard Serra al duo composto da Robert Morris e Claudio Parmiggiani). Il principio è lo stesso: la costruzione davanti a noi s’intuisce solo per le otto porte coloratissime che si aprono nelle sue pareti, invisibili in quanto specchianti l’ambiente esterno. Ma questo luogo «impossibile», stavolta, non ci si limita a contemplarlo; ci si entra dentro, e al suo interno ai colori squillanti si alternano altri specchi, e ogni visitatore vede moltiplicarsi la propria immagine all’infinito. Come nel luna park di quel vecchio film di Orson Welles con Rita Hayworth, «La signora di Shanghai», o nel castello «in cima al sasso» dei Pirenei (se ne ricorderanno Magritte e poi Calvino), nell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, dove il Mago Atlante trattiene «le donne e i cavallieri» nell’illusione di quel «palazzo strano».

Il mago dell’Ariosto è musulmano ma ha seguito il Re d’Africa, Agramante, all’assedio di Parigi. E proprio dalla Francia proviene il mago che è stato capace di incantarmi, coi suoi specchi fatati, in terra di Toscana. Il suo nome è Daniel Buren, ha compiuto da poco 87 anni, e ora lo celebra Pistoia con una mostra «esplosa» esemplarmente curata, insieme all’artista, da Monica Preti. La cabane eclatée, «la capanna esplosa», s’intitola appunto il lavoro di Celle, del 2005 (quello di Ama, del 2001, ha invece per titolo «Sulle vigne: punti di vista») e, come spiega in catalogo Riccardo Venturi, si pone «agli antipodi del monumento e della sua retorica»: non lo si contempla dall’esterno ma per poterlo vedere, seppure per breve tempo, lo si deve «abitare». La mostra è eclatée perché rinvia ai ben 300 siti italiani che ospitano lavori di Buren (che virtualmente, dunque, fanno tutti parte della mostra): tutti lavori «in situ», e non semplicemente site specific, in quanto realizzati in un certo luogo e a quel luogo consustanziali (il loro «materiale» è in effetti il paesaggio in cui si trovano); ma a Palazzo Buontalenti sono ricostruiti alcuni lavori «situati», cioè trasportabili in contesti diversi. 

Gli esordi, ha raccontato Buren a Laura Lombardi, risalgono al tempo dell’avventura strutturalista. Guido Le Noci, il primo gallerista che gli fece fare delle personali a Düsseldorf nel ’67 e l’anno dopo a Milano nella sua Galleria Apollinaire, dieci anni prima aveva «scoperto» Yves Klein. Ma quel tempo non era passato invano: nei soli due anni di attività il gruppo Bpmt (composto insieme a Buren da Olivier Mosset, Michel Parmentier e Niele Toroni) coltiva un’impersonalità minimalista ancora più asettica di quella dei loro predecessori, ma politica anziché mistica; le «Affichages sauvages», nelle strade del Maggio ’68, non sono in spirito così distanti dalle «psicogeografie» dei Situazionisti.

Queste radici «militanti» paiono oggi remote dall’alchimia stupefacente di Buren; eppure una traccia precisa è nascosta in piena luce, come la Lettera rubata di Edgar Allan Poe. Nelle bande bicolori verticali s’era imbattuto per caso in un mercatino di Parigi nel ’65, in un tessuto rigato di produzione industriale; e vi resterà fedele nei sessant’anni successivi (se «arbitraria è la scelta del rito cui mi dedico», «rigorosa» dovrà essere «l’osservanza del rito scelto a quel modo», predicava in quegli anni Giorgio Manganelli). E a nessuno sfugge come abbia trovato la sua patria d’elezione proprio in Toscana: la cui architettura romanico-gotica ostenta un marchio di fabbrica altrettanto inconfondibile in un motivo analogo, solo ruotato di 90 gradi: una bicromia orizzontale anziché verticale (a quanto pare importata dalla Spagna moresca, la terra di Agramante e di Atlante...), ma sempre di colore bianco alternato a uno più scuro. 

La simmetria fra i due outils viene esplicitata da Buren con l’installazione «La facciata ai venti»: grandi tende decorate col «suo» schema verticale si agitano (mosse da ventilatori) sulle finestre dell’Antico Palazzo dei Vescovi, sulla piazza dove affaccia anche il Duomo con la sua decorazione «toscanamente» orizzontale. È lì che si capisce come il suo linguaggio non abbia fatto che adattare all’era industriale la semplificazione arcaica e supremamente elegante dell’araldica. In un pezzo dell’81 (raccolto nel 2023 in Emigrazioni oniriche) il citato Manganelli faceva risalire la passione sfegatata degli ominidi per il gioco del calcio al linguaggio folgorante delle divise, perfettamente araldiche, delle squadre in campo: «i colori, le squadre, il torneo, lo scudetto, tutto questo è araldica. Tutto affonda le sue radici in un tempo lontano, magico e ferrigno, il tempo dei feudatari, delle crociate, degli araldi». Quella di Buren non è semplice ripetizione, ma l’«esplosione», o meglio l’implosione, in quella che, con metafora araldica, appunto, si definisce «mise en abyme»: l’interno dentro l’esterno dentro l’interno, ad infinitum. Tanti suoi lavori sono in forma di bandiere, ma quello dell’araldica è un linguaggio che rinvia sempre a una contrapposizione di principi (e di prìncipi). Il Mago non perde tempo a ricordarcelo, ora che la sua parte ha perso, ma la sua arte s’era dispiegata in nome di ideali precisi. Quelle guerre lontane, ora, sono materia di favola. 

«Daniel Buren, Fare Disfare Rifare. Lavori in situ e situati 1968-2025», a cura di Daniel Buren e Monica Preti, Pistoia, Palazzo Buontalenti, 8 marzo-27 luglio, catalogo Gli Ori, pp. 439 ill. col., € 45

L’autore è saggista e critico

Andrea Cortellessa, 18 maggio 2025 | © Riproduzione riservata

Daniel Buren, mago incantatore | Andrea Cortellessa

Daniel Buren, mago incantatore | Andrea Cortellessa