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Maria Vittoria Baravelli
Leggi i suoi articoliNancy Olnick, nata a New York e cresciuta fra i colori della Pop Art, e Giorgio Spanu, imprenditore nato in Sardegna e formatosi tra Parigi e Manhattan, si incontrano alla fine degli anni Ottanta e scoprono di condividere la stessa profonda curiosità per l’arte. Il primo acquisto fatto insieme è una clessidra in vetro di Murano disegnata da Paolo Venini che finisce accanto a un quadro di Andy Warhol, Flowers, nel loro appartamento di New York City, inaugurando una passione comune che li accompagnerà per tutta la vita. Dai vetri veneziani il passo verso l’arte contemporanea italiana è breve, e seguendo i suggerimenti di Sauro Bocchi dopo una fulminante visita al Castello di Rivoli nei primi anni Novanta, i due filantropi decidono di concentrarsi sull’Arte Povera.
Oggi l’Olnick Spanu Collection si dimostra una delle raccolte più consistenti degli Stati Uniti: conta centinaia di opere di Arte Povera accanto a una straordinaria collezione di lavori in vetro di Murano, ceramiche del dopoguerra e gioielli d’artista, tra i quali quelli di Giorgio Vigna e degli artisti della scuola di Padova. Per condividere le proprie scelte con il pubblico americano, nel 2017 a Cold Spring, nella Hudson Valley, la coppia fonda “Magazzino Italian Art”: un museo ricavato in un ex stabilimento industriale di circa 2000 metri quadri e centro di ricerca dedicato all’arte italiana dal dopoguerra al contemporaneo. Il complesso ospita una mostra permanente con opere dei protagonisti storici dell’Arte Povera: Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Mario Merz, Marisa Merz, Jannis Kounellis, Pino Pascali e Gilberto Zorio, oltre a Emilio Prini e Piero Gilardi. Dispone inoltre di un centro di ricerca e una biblioteca di oltre 5000 volumi, la più ampia del genere in Nord America.
Nel 2023, Magazzino Italian Art inaugura il secondo edificio del Museo, intitolato alla memoria del padre di Nancy: il Robert Olnick Pavillion, progettato dagli architetti Alberto Campo Baeza e Miguel Quismondo. Questo nuovo edificio offre ulteriori spazi espositivi come l’Education Center, una sala polifunzionale, The store e il Café Silvia, che propone cucina italiana a cura dello chef Luca Galli. Il dialogo fra Italia e Stati Uniti è il filo rosso della loro visione, specchio delle biografie “insulari” di Nancy (Manhattan) e Giorgio (Sardegna). A rafforzare questa vocazione transatlantica contribuisce anche l’Olnick Spanu Art Program, che dal 2003 al 2015 ha invitato ogni anno un artista italiano con l’intento di creare un’opera site-specific nella proprietà della coppia a Garrison, NY a pochi minuti da Magazzino Italian Art, consolidando il ponte culturale “dall’Hudson al Mediterraneo”. Tra gli artisti invitati: Giorgio Vigna, Massimo Bartolini, Mario Airò, Domenico Bianchi, Remo Salvadori, Stefano Arienti, Bruna Esposito, Marco Bagnoli, Francesco Arena e Paolo Canevari.
Quando lei e Nancy avete capito che non volevate più soltanto acquistare opere, ma costruire una collezione organica?
Non abbiamo mai voluto, intenzionalmente, creare una “collezione d’arte”, infatti non amiamo definirci o essere definiti “collezionisti”. Siamo dei semplici “guardiani temporanei” delle opere che abbiamo il privilegio di aver potuto acquistare. Il nostro intento non è mai quello di riempire dei vuoti, come spesso succede ai collezionisti.
Qual è, secondo voi, l’essenza di una collezione: racconto, responsabilità civile, investimento emotivo?
Senza dubbio, quando acquistiamo un’opera, sentiamo sempre una forte responsabilità civile, soprattutto ora che viene condivisa con i visitatori di Magazzino Italian Art Museum. Per noi è molto importante condividere pubblicamente le opere di cui siamo i guardiani, ma al contempo le opere raccontano e generano emozione. Dunque la risposta non può che essere: “Tutte e tre. Racconto, responsabilità civile, investimento emotivo”.
Che cosa deve “dirvi” un’opera per convincerla a entrare nel vostro percorso? Mi fa un esempio?
Un’opera la si guarda con gli occhi, ma la si sente con lo stomaco. Deve sempre dare emozioni, e le emozioni, si sa, possono essere varie. Forti o leggere, belle o brutte. Sta a noi, alla fine, decidere quali sono quelle giuste.
Ricorda un incontro o un artista che, da solo, ha cambiato la direzione delle vostre scelte?
Sicuramente Giulio Paolini, dopo aver visto “Amore e Psiche” al Castello di Rivoli. Attualmente l’opera è esposta nella Galleria 8 di Magazzino Italian Art. Poi Michelangelo Pistoletto, dopo che ha creato “Stracci Italiani” per l’Olnick Spanu Art Program. Un’opera che doveva servire da guida agli artisti in residenza, e che oggi dà il benvenuto a chi visita Magazzino Italian Art, esposta all’ingresso del Museo.
Magazzino Italian Art, Robert Olnick Pavilion Photo di Javier Callejas. Courtesy Magazzino Italian Art.
Qual è il messaggio principale che desidera resti impresso al pubblico guardando la vostra collezione?
L’arte è vita, e dobbiamo includerla nel quotidiano.
Perché avete deciso di dedicare l’edificio principale di Magazzino all’Arte Povera?
Le opere dell’Arte Povera sono spesso di grandi dimensioni, ne abbiamo acquistate tante e la nostra casa non poteva certo ospitarle tutte; avevamo bisogno di uno spazio dove poterle immagazzinare, ed è così che è nato il Magazzino Italian Art.
Nel vostro percorso è stato fondamentale anche il dialogo con Germano Celant. Quali suggestioni, visioni o consigli vi hanno guidato nel dare forma a Magazzino e alla vostra collezione?
Germano ci è stato sempre molto vicino, ma il nostro dialogo sull’Arte Povera è cominciato solo dopo che abbiamo aperto Magazzino Italian Art, a Giugno del 2017. Germano ne era molto fiero e i suoi consigli, sempre disinteressati, sono stati molto importanti. La sua morte è stata per noi una grande perdita. È stato come perdere un padre, un amico e un fratello contemporaneamente. Magazzino lo onorerà sempre e ricordandolo con rispetto e con affetto.
Per la storia di Magazzino Italian Art è stato molto importante anche incontrare Sauro Bocchi, che ci ha fatto conoscere Mario e Dora Pieroni, da cui abbiamo acquistato le nostre prime opere d’Arte Povera. E fondamentale è stato anche Domenico Bianchi, che ci ha fatto conoscere il suo gallerista di riferimento, Gianfranco Benedetti della galleria Christian Stein a Milano. Grazie a Gianfranco abbiamo acquistato molte delle opere che erano appartenute a Margherita Stein, fondatrice della galleria Christian Stein a Torino e che oggi costituiscono la parte principale delle opere esposte a Magazzino Italian Art.
A suo avviso, quale lezione offre ancora l’Arte Povera in un’epoca dominata dalla tecnologia e dalla smaterializzazione?
“L’arte è vita”, ripeteva Germano Celant, che di questo assunto aveva fatto un mantra diretto del movimento dell’Arte Povera e che mirava a cancellare i confini tra arte e vita attraverso l’uso di materiali umili e organici per esplorare i concetti di natura, tempo ed esperienza umana, andando oltre la commercializzazione e i confini dell’arte tradizionale fino ad allora conosciuti.
Gli artisti del movimento dell’Arte Povera inclusero nella loro pratica elementi quotidiani, non preziosi, come terra, legno e stracci per sfidare i valori istituzionali e connettere l’arte ai processi viscerali della natura. Oggi più che mai, in un’epoca dominata dalla tecnologia e da esperienze virtuali, mediate da schermi, l’Arte Povera ci insegna e ci ricorda che “l’arte è vita”. Non dimentichiamolo mai!
Come reagisce il pubblico statunitense, spesso poco esposto all’arte italiana del Novecento, di fronte a opere radicali come quelle di Kounellis o Pistoletto?
Le opere di artisti come Kounellis e Pistoletto possono apparire radicali in un primo momento, ma sono risposte al clima storico, culturale, e artistico in cui questi artisti hanno lavorato. Penso che per aiutare i visitatori di Magazzino Italian Art a capire meglio l’Arte Povera – non solo gli Americani, ma anche gli Europei e gli Italiani – sia fondamentale far conoscere loro i precursori Alberto Burri, Lucio Fontana e Piero Manzoni, ma anche chi ha lavorato a fianco del movimento: Piero Gilardi, Costantino Nivola, Maria Lai, Ettore Spalletti e Mario Schifano, già presentati a Magazzino, oltre a Franco Angeli, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Carla Accardi e tanti altri del dopoguerra che abbiamo in collezione e che presenteremo presto. Chiarire il contesto è fondamentale per poterli comprendere appieno.
Negli anni Sessanta negli USA esplode la Pop Art, mentre in Italia nasce l’Arte Povera: perché due traiettorie così diverse?
Perché Torino non è New York e viceversa. Infatti, nonostante la prima mostra sull’Arte Povera, organizzata da Germano Celant, sia stata fatta nel 1967 alla Galleria Bertesca a Genova, l’Arte Povera è stata divulgata soprattutto grazie alle gallerie torinesi fra cui spiccarono Christian Stein e Gian Enzo Sperone.
Quale peso hanno avuto mercato, politica e industria nello sviluppo di quei due movimenti?
Il mercato ha avuto sicuramente un grande peso su entrambi, ma anche la politica del dopoguerra e le industrie che portarono ricchezza. La Pop Art rispondeva all’evolversi del sistema economico statunitense. Gli artisti di quel movimento hanno cercato di dare risposte critiche che riflettono sull’estetica del consumismo, della celebrity culture, della comunicazione di massa. L’Arte Povera ha a sua volta offerto una risposta al contesto economico e politico dell’Italia negli anni della contestazione che fecero seguito al periodo del “miracolo economico” del secondo dopoguerra. Le città industriali del nord Italia erano giunte alla fine degli anni Sessanta profondamente mutate: l’espansione delle fabbriche, l’arrivo massiccio di lavoratori dal Sud, l’omologazione dei ritmi di vita e la diffusione dei consumi di massa avevano segnato cambiamenti radicali. L’Arte Povera emerge come una riflessione critica e poetica su queste trasformazioni.
Installation view, ‘Piero Manzoni. Materials of His Time’, Hauser & Wirth Los Angeles, 2019 © Fondazione Piero Manzoni, Milano Courtesy Fondazione Piero Manzoni, Milan and Hauser & Wirth Photo: Mario de Lopez
Oggi ritiene che Pop Art e Arte Povera si stiano avvicinando o restino linguaggi sostanzialmente distinti?
Penso che gli artisti della Pop Art non siano poi così lontani da quelli dell’Arte Povera. Lo aveva capito Ileana Sonnabend che accostò molti artisti sia della Pop Art che dell’Arte Povera, tra cui Pistoletto e Kounellis. Oggi è il turno della galleria Fumagalli di Milano, che espone lavori di Jannis Kounellis e di Andy Warhol nonostante i due artisti non abbiano mai prodotto opere d’arte collaborative. La mostra attualmente in corso, “KOUNELLIS | WARHOL Staging the human tragedy”, esamina i loro approcci artistici distinti ma rilevanti; esplora le differenze e i background culturali condivisi tra Kounellis, pioniere dell’Arte Povera, noto per l’uso di materiali grezzi, e Warhol, icona della Pop Art, analizzando i loro approcci alla spiritualità e al potere nell’arte. Penso che bisognerebbe portarla in Nord America.
Il nuovo Robert Olnick Pavilion ha raddoppiato gli spazi di Magazzino: in che modo l’architettura influenza l’esperienza del visitatore?
Il nuovo Padiglione non ha solamente raddoppiato gli spazi di Magazzino Italian Art, ma ha quadruplicato il numero di visitatori, grazie anche all’architettura, la cucina italiana, gli orti, gli asinelli sardi e l’esperienza culturale italiana. Un museo non deve solo offrire opere d’arte, deve insegnare anche la cultura che ha aiutato a crearle, e che nel nostro caso è quella Italiana. Magazzino propone ogni giorno a tutti i suoi visitatori la cultura come “Esperienza del Bello e del Buono”.
Quali ulteriori sviluppi immagina per il campus nei prossimi cinque anni? Residenze d’artista, laboratori, centro di ricerca?
Continueremo a fare quello che già facciamo: mostre sull’Arte Povera, ma anche sui suoi precursori e sugli artisti contemporanei. La prossima mostra sarà in collaborazione con un’eccezionale artista italiana e continueremo le attività del “Centro di Ricerca” diretto da Nicola Lucchi. Oltre alle consuete giornate di studio dedicate agli artisti delle nostre mostre, abbiamo reso disponibile online il catalogo della biblioteca e degli archivi, aprendo così nuove importanti possibilità di consultazione per studiosi e ricercatori. Nei prossimi mesi riavvieremo anche il programma di borse di studio, con una nuova formula pensata per rispondere meglio alle esigenze della comunità accademica. Inoltre, abbiamo recentemente inaugurato un Education Center, che ci permette di costruire un rapporto continuativo con le scuole del territorio: una risorsa preziosa non solo per l’insegnamento dell’arte attraverso laboratori, ma anche per la scrittura e per lo studio della lingua italiana.
Qual è il valore simbolico e istituzionale del fatto che la Fondazione Piero Manzoni e Hauser & Wirth abbiano scelto proprio Magazzino come “casa permanente” per la Stanza pelosa e la Stanza fosforescente?
Il valore non è solo simbolico ma reale. La decisione della Fondazione Piero Manzoni e di Hauser & Wirth di affidare a Magazzino la custodia di queste due opere rappresenta un riconoscimento concreto del lavoro che stiamo portando avanti per lo studio, la valorizzazione e la diffusione dell’arte italiana. Magazzino è un interlocutore credibile, capace di offrire al pubblico americano un contesto adeguato a comprendere la portata storica e concettuale di queste opere. Questa donazione rafforza inoltre il legame con le istituzioni italiane e con le gallerie internazionali, consolidando il ruolo del museo come ponte tra l’Italia e gli Stati Uniti nella promozione dell’arte contemporanea.
In che modo questa donazione e la mostra Piero Manzoni: Total Space rafforzano la missione di Magazzino come punto di riferimento negli Stati Uniti per l’arte italiana del dopoguerra?
Questa donazione e la mostra che le abbiamo dedicato ci rafforzano perché ci permettono di offrire al pubblico prospettive sempre più ampie e contestualizzate, che indagano attentamente il panorama artistico italiano del secondo dopoguerra. Per quanto la collezione permanente di Magazzino rimarrà ancorata all’Arte Povera, è importante inquadrare questo movimento nel contesto delle esperienze che l’hanno preceduto e seguito. Il rapporto con istituzioni, fondazioni, studiosi e collezionisti che questa mostra ci ha permesso di costruire sono elementi altrettanto importanti, che ci rendono un tramite fondamentale tra la ricerca storico-artistica italiana e la realtà statunitense: scuole, università, specialisti del settore, e pubblico generale.
Il curatore Nicola Lucchi sottolinea come Manzoni abbia anticipato temi poi centrali nell’Arte Povera. Come pensa che i visitatori percepiranno questo legame, entrando fisicamente in spazi concepiti più di sessant’anni fa ma mai realizzati prima?
Uno degli aspetti più affascinanti di queste stanze è che, pur nella loro realizzazione fisica, l’esperienza che offrono è effimera, dura il tempo dell’ingresso. Le opere agiscono a livello sensoriale ed epidermico, attraverso il bagliore della vernice fosforescente e la componente tattile del pelo sintetico. Manzoni pensava a materiali industriali presi dal mondo dell’edilizia e del tessile, per trasformarli in un’esperienza estetica e concettuale che ha una dimensione ambientale e richiede la partecipazione diretta dello spettatore. Tutto questo anticipa molte delle riflessioni che saranno poi sviluppate dagli artisti legati all’Arte Povera.
Manzoni giocava tra ironia, concetto e corporeità, spesso contro la logica del mercato. Secondo lei, quale messaggio contemporaneo possono ancora trasmettere queste opere immersive al pubblico americano di oggi?
Le stanze oggi sono particolarmente attuali: i musei organizzano molte mostre con una componente esperienziale, che i visitatori condividono costantemente attraverso i social media. Queste opere, pensate con ironia più di sessant’anni fa, acquistano nuovi significati. Manzoni aveva già intuito la forza dell’esperienza diretta e sensoriale, ed era consapevole dei meccanismi di spettacolarizzazione, ma certo non poteva immaginare la realtà odierna. Per il pubblico di oggi, queste installazioni rappresentano un invito a vivere l’arte come presenza, in cui la condivisione social non può sostituire l’esperienza diretta.
In tempi così confusi, complicati e instabili, come possono l’arte, e Magazzino in particolare, tenere ferma la barra, far sì che rimanga centrata e porsi come faro che indica una direzione?
L’impressione è che oggi si navighi spesso a vista. Eppure, fin dalla preistoria e dalle incisioni rupestri, l’arte ha rappresentato un valore fondamentale per l’umanità: una testimonianza della propria presenza, della fatica e della bellezza di esistere, un tentativo di dialogo con forze superiori. I musei, e Magazzino tra loro, hanno il compito di continuare a portare avanti questa testimonianza non solo attraverso le mostre, ma anche creando opportunità di incontro e condivisione: eventi, pubblicazioni e nuovi spazi per la comunità, come Spazio Aperto, la sala polifunzionale che abbiamo recentemente inaugurato e che nasce proprio da questo desiderio di favorire la conoscenza e il dialogo.
Foto Marco Anelli - Tommaso Sacconi ©
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