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Samantha De Martin
Leggi i suoi articoliSimile a un rebus visivo, a una «confessione che sigillar si vuole» alla curiosità di chiunque non abbia sottoscritto un patto con il pittore, il «Ritratto di Giovane» attribuito a Giorgione, proveniente dallo Szépművészeti Múzeum di Budapest, è a Palazzo Barberini di Roma fino all’8 marzo 2026. Realizzato intorno al 1503, il dipinto è conosciuto anche come «Ritratto di Antonio Brocardo», in riferimento alla poco probabile identità dell’effigiato scaturita dalla scritta (apocrifa) ancora visibile sul parapetto. Dubbi ruotano intorno alla cronologia, all’identità del soggetto, ai significati più intimi dell’immagine, come ad esempio il cammeo con una tripla testa di donna. Con quell’alone di mistero, cifra distintiva del pittore di Castelfranco, il ritratto di Budapest aggancia lo sguardo del visitatore proiettandolo verso il suo misterioso protagonista: un uomo qualunque all’apparenza, avvolto in una casacca scura ricamata, sopra la camicia bianca. Un caschetto castano incornicia il volto ovale, gli occhi espressivi, lasciando scoperte le orecchie. Protagonista della mostra dossier «Giorgione. Da Budapest a Roma», curata da Michele Di Monte, il ritratto, proveniente dal mercato veneziano, era stato donato nel 1836 al Museo di Belle Arti di Budapest dal patriarca di Venezia, l’arcivescovo ungherese János László Pyrker. A Palazzo Barberini intrattiene un dialogo con un’altra opera di Giorgione, di poco antecedente, il «Doppio ritratto» del 1502 in prestito dal Vive-Vittoriano e Palazzo Venezia.
Questo inedito faccia a faccia, che rientra nell’ambito di un accordo di collaborazione tra i due istituti del Ministero della Cultura, offre spunti di riflessione su alcune questioni estetiche e iconografiche ancora elusive che ruotano intorno alla figura dell’artista. «Gli studiosi, spiega Michele Di Monte, hanno a lungo discusso circa l’identità del soggetto, ma ad oggi non sappiamo chi sia l’effigiato, né per chi il dipinto sia stato realizzato». Certa è tuttavia l’identità ideale del giovane. «La ritrattistica di Giorgione, continua Di Monte, determina una deviazione rispetto al mainstream. Siamo di fronte a una virilità altra rispetto alla tradizione, a un uomo qualunque che si lascia ritrarre perché si trova in una particolare condizione esistenziale». Se il «Doppio ritratto» racchiude uno stato d’animo malinconico, il ritratto di Budapest diventa un momento di autoriconoscimento identitario. «Se inizialmente la melanconia, nella tradizione medica, rappresentava una condizione sgradevole, dalla fine del XV secolo viene riabilitata (anche per merito degli artisti) e da stato d’animo sofferto assurge a simbolo di una sensibilità superiore». A Budapest il dipinto era stato oggetto di una campagna diagnostica. «Sulla sinistra doveva esserci una finestra aperta, come dimostrano le tracce di azzurro. Lo sguardo del soggetto doveva essere diverso come anche il parapetto, oggetto di manomissione», aggiunge il curatore. Nel «Doppio ritratto» il giovane pensoso, compatito dall’espressione intensa dell’amico, regge un melangolo, emblema della natura dolce e amara dell’amore.
La mostra dossier è il primo di una serie di appuntamenti che vedranno al Vive un importante prestito da Palazzo Barberini.
«Questo accordo di collaborazione strategica, commenta Edith Gabrielli, direttrice del Vive, che prevede una serie di attività di ricerca e di valorizzazione, mette in dialogo due grandi musei romani che condividono una radice comune diventando l’occasione per ricostruire la storia museologica di questa città». Come spiega il direttore delle Gallerie Nazionali di Arte Antica Palazzo Barberini-Galleria Corsini, Thomas Clement Salomon, «poter creare un momento di approfondimento su un artista straordinario come Giorgione è qualcosa di nuovo per le Gallerie, che vantano una collezione straordinaria di opere, soprattutto del Seicento, accanto a una piccola selezione di dipinti veneti».