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Così l’arte diventò una fotografia

«Non guardo solamente l’opera, osservo l’artista. Guardo come l’artista guarda l’opera»: è morto Claudio Abate, che con le sue immagini ha raccontato gli anni più intensi dell’arte contemporanea in Italia

Guglielmo Gigliotti

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È morto all’alba del 3 agosto per un male incurabile Claudio Abate, il fotografo delle avanguardie del secondo ’900. Aveva compiuto 74 anni e un giorno, essendo nato a Roma il 2 agosto 1943. La città, liberatasi dall’occupazione nazifascista, stava allora rinascendo. Ma il futuro fotografo delle opere dei maggiori artisti italiani e internazionali dall’inizio degli anni Sessanta in poi si trova ben presto orfano e costretto a trascorrere fino all’età di 11 anni la sua vita in un collegio di Ostia.

A 12 anni lo prende a bottega Michelangelo Como, allora importante fotografo di opere d’arte, che conosceva il defunto padre di Claudio Abate, un pittore ritrattista. Lo studio è in via Margutta e Abate, sedicenne, nel ’59, ne apre uno suo. Frequentava già i caffè della zona, le trattorie degli artisti, le mostre.

Sentendo parlare Pericle Fazzini in studio davanti alle sue sculture carpisce i segreti dello sguardo dell’artista sull’arte. Già affermato fotografo dell’arte dirà: «Non guardo solamente l’opera, osservo l’artista. O meglio guardo come l’artista guarda l’opera. (...) Ho sempre cercato il punto di vista dell’artista». Il primo ritratto importante è quello scattato nel ’59 a un giovanissimo Mario Schifano, conosciuto al Caffè Notegen di via del Babuino mentre parlava con Mafai, Fellini e Carmelo Bene. Dal ’63 al ’73 sarà il fotografo di scena di 9 opere teatrali di Carmelo Bene (con cui faceva anche coppia fissa a scopone scientifico), venendo così a contatto con il fervido mondo delle cantine romane, dove passava il teatro d’avanguardia, di cui Claudio Abate si fa testimone per immagini fisse, nonostante il dinamismo dei corpi e delle scene. È un’ottima palestra per trovare il «punto di vista dell’artista» anche di opere cinetiche come le performance, nel loro primo fiorire sperimentale, a Roma come nel mondo, negli anni Sessanta. Fondamentale, in tal senso, è il rapporto con Fabio Sargentini, che sta facendo della galleria L’Attico una centrale delle neoavanguardie internazionali. Claudio Abate fotograferà i «12 cavalli vivi» di Kounellis nel ’69, «Lo Zodiaco» di Gino De Dominicis nel ’70, il fascio di luce dell’installazione «120 metri al secondo» di Maurizio Mochetti nel ’71, e poi le mostre di Mario e Marisa Merz, di Eliseo Mattiacci e Michelangelo Pistoletto, le operazioni di Land art di Robert Smithson («Asphalt rundown»), i festival di danza e arte.

I più bei ritratti di Pino Pascali portano la firma di Abate. Con il tempo il fotografo si fa specchio di quel mondo dell’arte che noi spesso oggi vediamo con i suoi occhi, ovvero mediante le sue fotografie. Sono in tanti a scegliere Abate: Penone, Ontani, Pisani, Boetti, Gilbert & George, Nitsch, Christo, Fabre, Kiefer, Kosuth, Abramovic, West. Negli anni Ottanta trasferisce lo studio a San Lorenzo, diventando sodale e fotografo di Nunzio, Tirelli, Ceccobelli, Pizzi Cannella, Gallo e Dessì. Dagli anni Novanta gli sono dedicate mostre importanti, con sezioni specifiche della sua ricerca personale: alla Biennale di Venezia del ’93, a Villa Medici a Roma nel 2001, al Mart di Rovereto nel 2007. Schivo, introverso e ironico, Claudio Abate entrava anche con i silenzi in empatia con gli artisti. Non è riuscito a realizzare un solo sogno, quello di fotografare il sole nella sua intera traiettoria, dall’alba al tramonto. Diceva che non riusciva proprio ad alzarsi così presto al mattino.
 

Guglielmo Gigliotti, 06 settembre 2017 | © Riproduzione riservata

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