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«Beauty is a ready-made» (2020), di Claire Fontaine. © Studio Claire Fontaine. Foto: James Thornhill

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«Beauty is a ready-made» (2020), di Claire Fontaine. © Studio Claire Fontaine. Foto: James Thornhill

Claire Fontaine: l’appropriazione, se fatta con senso dell’umorismo, è miracolosa

Da vent’anni il collettivo, formato da Fulvia Carnevale e James Thornhill, critica sistematicamente i rapporti di dominazione

Bianca Bozzeda

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«Beauty is a ready-made» (2020), di Claire Fontaine. © Studio Claire Fontaine. Foto: James Thornhill

Un ritratto di Fulvia Carnevale e James Thornhill. © Laura Marie Cieplik

Un ritratto di Fulvia Carnevale e James Thornhill. © Laura Marie Cieplik

Era il 2020 quando il collettivo Claire Fontaine, nato a Parigi nel 2004, iniziava la sua collaborazione con Dior realizzando l’installazione «I SAY I» per una sfilata. Tre anni dopo, la direttrice artistica delle collezioni donna Maria Grazia Chiuri ha invitato Fulvia Carnevale, cofondatrice di CF insieme a James Thornhill, a riflettere su come diffondere un messaggio femminista durante il Festival di Sanremo, copresentato da Chiara Ferragni.

Sullo scialle di un vestito da sera che ricorda un abito da lutto, spicca così la frase «Pensati libera», che il collettivo propone ispirandosi a un tag anonimo letto durante una manifestazione femminista a Genova. Una scelta duramente criticata da (quasi) tutti i fronti, come se la cooperazione tra alta moda, arte contemporanea, social e televisione autorizzasse a banalizzare il messaggio in questione. Ne abbiamo parlato con Claire Fontaine.

Il vostro lavoro porta l’attenzione sui meccanismi di potere proponendo delle alternative, una sorta di autodifesa. Eppure l’arte contemporanea un potere ce l’ha, e forte. È davvero possibile mettere in guardia dal potere facendone a meno?
Claire Fontaine è foucaultiana, pensa che i rapporti di potere siano onnipresenti e inevitabili. Quelli da cui bisogna guardarsi sono invece i rapporti di dominazione, che sono conservativi e non dinamici. L’arte non ha solo grandi possibilità per accendere i cuori e allertare le coscienze, ha anche delle responsabilità che consistono nel non venir meno all’uso della libertà, qualunque sia la situazione.

Che cosa è successo dopo il Festival di Sanremo?
Sono successe tante cose. La più bella è stata il dilagare dei meme e dei pirataggi della frase: l’appropriazione è rivitalizzante, e quando è fatta sotto l’insegna del senso dell’umorismo è miracolosa. Chiara Ferragni è stata criticata perché, pur essendo una donna privilegiata, si è fatta avvocata della causa delle donne vittime di violenza: cosa assurda, perché il privilegio non ha mai impedito di lottare contro l’ingiustizia, soprattutto contro quella di cui non si è complici. Noi siamo stati criticati dal presunto autore della scritta (che ovviamente non conoscevamo), Cicatrici Nere, un tatuatore bolognese. La «sua» scritta non poteva avere una vita propria, finire su un abito di Dior portato da Chiara Ferragni per difendere la causa femminista. Abbiamo fatto la nostra prima triste esperienza del trolling su Instagram, raccogliendo insulti e anche minacce. Pensarsi libere sembra davvero destrutturante rispetto alle gerarchie implicite della realtà sociale. L’avventura va continuata, c’è tanta strada da fare e sarà un cammino appassionante.

Dalle accuse di plagio alle accuse di aver contribuito a mercificare un pensiero: il colmo per un collettivo che, da quasi vent’anni, fa della critica ai rapporti di dominazione il proprio motore. Vi aspettavate questa reazione?
No, in effetti è stata una gran sorpresa. Retrospettivamente, però, è comprensibile che questa sinergia totalmente nuova tra arte, moda, social media e spettacolo per parlare di femminismo abbia spiazzato. Quello che ci ha più stupito è che i giornali che hanno intervistato Cicatrici Nere non ci abbiano offerto un diritto di replica. L’idea che ci sia stato un aspetto «commerciale» nell’uso di «Pensati libera», per esempio, è assurda: l’abito non è in vendita, e né Dior, né Chiara Ferragni hanno bisogno di una frase del genere per fare profitti spettacolari. I guadagni di Chiara Ferragni a Sanremo sono stati inoltre devoluti all’associazione Di.r.e. (Donne in rete contro la violenza, Ndr). Anche se per noi è un dettaglio senza importanza, non abbiamo mai affermato di aver scritto la frase sul muro, abbiamo anzi fotografato la fonte. Ci sono espropri terribili cui siamo abituati, compresi quelli di molti diritti essenziali, e altri che sono solo citazioni e ci sembrano furti imperdonabili. «Pensati libera» sul corpo di Chiara Ferragni era una promessa fatta a chi subisce il trauma della violenza di poter essere altro che una vittima. Il patriarcato è prima di tutto una forma di analfabetismo emotivo, ora ne stiamo uscendo.

Il ready-made viene comunemente considerato un pezzo da collezione del Novecento. CF lo trasporta invece nel XXI secolo, rendendolo ultracontemporaneo. È lui a essere estremamente moderno, o sono i linguaggi dell’arte ad essere saturi?
Il ready-made ha un’attualità dirompente e un valore politico molto importante per il nostro tempo. Privando un oggetto del suo valore d’uso gli si fornisce un valore di esposizione, che lo apre a una dimensione simbolica dandogli una presenza trasformativa. L’oggetto diventa realmente un’opera d’arte, lo si vede con uno sguardo diverso.

È nuova per noi la sensibilità all’anima delle cose e degli esseri, perché è stata sepolta da tanti anni di positivismo coloniale, di illuminismo accecante, di ideologia di un progresso bianco che vede il potere, i macchinari e la capacità di dominare come le conferme della propria superiorità, restando cieco ai danni che provoca. Abbiamo molto da imparare da chi non si è imbarcato in questo cammino di disincanto (per citare Stefania Consigliere) e per salvare il pianeta ci serve nuovamente una sensibilità infrasottile, come la chiamava Duchamp.

CF pensa che il materialismo storico, che è stato per il Novecento un metodo importante per l’emancipazione, presupponga una storia accumulativa, e che ci serva invece un materialismo che spieghi gli aspetti più impercettibili del vivente che a noi piace chiamare, in omaggio a Ernesto De Martino e a Silvia Federici, materialismo magico.

Nel 2017, CF ha deciso di lasciare Parigi e di vivere a Palermo. Anche questa è una forma di «autodifesa»?
Di certo lasciare Parigi è stata per noi una buona scelta, poiché è un luogo da cui sono state cancellate quasi tutte le tracce della città e delle persone che avevamo amato, e in cui regna una grande violenza quotidiana. Il tessuto urbano, l’onnipresenza della sua storia, delle sue ferite, del caos, ci insegnano ogni giorno la gratitudine verso uno degli ultimi posti al mondo dove gli stranieri sono ancora benvenuti.

La storia ha mostrato a più riprese quanto le migrazioni degli artisti fossero il primo segno di un cambiamento profondo della vita urbana, economica e sociale di una città. Accadrà lo stesso anche a Palermo?
Lo speriamo di cuore, come speriamo che la gentrificazione non assuma le forme espulsive e distruttive che ha assunto altrove. La città è ancora mezza vuota e piena di potenziale, basti pensare al suo mare che neppure è balneabile. Il patrimonio umano di Palermo andrebbe registrato all’Unesco, poi forse si farebbe ciò che serve a valorizzare questa città che è ormai la nostra e che non vorremmo mai lasciare.
 

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Bianca Bozzeda, 23 marzo 2023 | © Riproduzione riservata

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