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A Parigi l’Arte Povera entra in Borsa. Ma i suoi titoli hanno cominciato a essere quotati sui listini internazionali sin dalla seconda metà degli anni Sessanta per merito di una ciurma di avventurieri che senza marketing e strategie hanno conquistato il mondo. Le ragioni sono dovute alla capacità di intercettare un cambiamento profondo della scena artistica mondiale attraverso un percorso identitario riconosciuto internazionalmente. E poi non va dimenticato che, come ha sottolineato Tommaso Trini, «questa volta il contributo dell’Italia non è solo fecondo ma organizzato». E così in quegli anni formidabili è successo quello che non sarebbe più avvenuto sino agli anni Ottanta quando con minor fortuna si è imposta la Transavanguardia.
Ogni storia che si rispetti ha i suoi eroi. La nave salpa per merito di Germano Celant, che aveva individuato un gruppo di giovani artisti dalla straordinaria vitalità, in grado di sconvolgere i criteri tradizionali dell’estetica borghese a favore di una ricerca processuale di carattere antropologico, dove si attua una relazione diretta tra arte e vita. Ma non bisogna dimenticare il contesto, ovvero una città imprenditorialmente avanzata come Torino intenzionata a prendere le redini dell’avanguardia che fino a quel momento erano state nelle mani di Milano e Roma. Qui a preparare il terreno sono stati pochi collezionisti perspicaci tra cui Corrado Levi, Pier Luigi Pero, Remo Morone, un gallerista ambizioso e geniale come Gian Enzo Sperone e un artista che aveva inventato un nuovo linguaggio come Michelangelo Pistoletto.
È stato proprio quest’ultimo a fare da apripista: nel 1963 dopo che i suoi «Quadri specchianti», presentati alla torinese Galatea di Mario Tazzoli, erano stati accolti con freddezza, si reca a Parigi dove, su segnalazione dell’artista Bepi Romagnoni, scopre lo spazio di Ileana e Michael Sonnabend da poco aperto. La grande gallerista americana, separata da Leo Castelli ma con cui continuava ad avere un rapporto di collaborazione, rappresentava il ponte tra Europa e America. L’innovazione delle opere di Pistoletto trova un immediato consenso tanto da convincere i Sonnabend a venire a Torino per acquistare l’intera mostra esposta da Tazzoli. Poco dopo, Pistoletto torna a Parigi con Sperone, appena ventiquatrenne, ex assistente di Tazzoli e direttore della galleria Il Punto che nel 1964 apre il proprio spazio. Visitano la mostra di Roy Lichtenstein e il 23 dicembre 1963 inaugura a Torino la prima personale italiana dell’artista americano organizzata da Sperone in collaborazione con Sonnabend. Da qui bisogna partire per comprendere il legame tra Torino, Parigi e New York. Ileana è la prima a sdoganare l’arte italiana emergente e nel 1967 organizza a Parigi una personale con i «Tappeti-natura» di Piero Gilardi. Come ricorda Lara Conte nel suo importante saggio Percorsi attraverso l’Arte Povera 1966-1972, nel 1969 Giovanni Anselmo, Mario Merz e l’appena venticinquenne Gilberto Zorio, già presentati a Torino da Sperone, vengono proposti con tre mostre personali a Parigi e nel 1970 giunge da Sonnabend Pier Paolo Calzolari, un altro artista appena entrato nella scuderia di Gian Enzo. Quell’anno la gallerista apre una sede a New York, che diventa un avamposto negli States fondamentale per la diffusione delle nuove ricerche italiane. Così, fra il 1970 e il 1972, nelle diverse sedi si alternano le personali di Merz, Calzolari, Kounellis e Paolini.
Ma conviene fare un passo indietro per ricordare una realtà troppo spesso trascurata, ovvero la nascita a Torino nel 1967 del Deposito d’Arte Presente (Ddp), che costituisce un modello per esperienze analoghe diffuse in Europa e oltreoceano. Il Ddp era un’ex autorimessa a pochi passi dal Po nata con l’obiettivo di promuovere nel mondo i «giovani artisti di straordinaria vitalità», come recitava il manifesto. Il segretario dell’associazione era Marcello Levi che insieme a Sperone, Zorio e Anselmo ha ideato l’iniziativa. Un altro artista, Piero Gilardi, aveva il ruolo di portavoce e gestore dei locali. Frequentato dalla critica, il Ddp è stato raggiunto anche da Celant, «curialesco tutto in nero, quasi benedicente, prossimo al fatidico battesimo», come ironicamente lo ha descritto Marcello Levi. Nonostante la breve durata di quell’esperienza, il modello Ddp aveva fatto breccia e nel 1968 Leo Castelli apre un magazzino a New York con la mostra «Nine at Castelli», curata da Robert Morris, dove sono presenti Anselmo e Zorio insieme a Bill Bollinger, Eva Hesse, Stephen Kaltenbach, Bruce Nauman, Alan Saret, Richard Serra e Keith Sonnier.
Gli eventi si susseguono e nel 1970 Zorio espone al Guggenheim che in quell’occasione acquista da Sperone per la modesta cifra di 900 dollari «Macchia II», la prima opera di Arte Povera entrata nel museo americano. Nello stesso anno Paolini, Penone ed Emilio Prini partecipano a una collettiva organizzata dal MoMA e nel 1971 la «6th Guggenheim International Exhibition» ospita Daniel Buren e Mario Merz. Il movimento, ufficializzato nel 1967 da Celant alla Galleria La Bertesca di Genova, trova la sua consacrazione nel 1970 in occasione della mostra alla Galleria Civica d’Arte moderna di Torino «Conceptual Art Arte Povera Land Art», curata sempre da Celant. La mostra era stata anticipata nel 1969 dal libro Arte Povera di Celant, edito da Mazzotta, la prima analisi completa sul movimento. L’accoglienza è favorevole tanto che Harold Rosenberg recensisce il volume su «The New Yorker» dove sottolinea la nascita «dell’ultimo movimento d’avanguardia che oggi sta cercando di conquistare la leadership». E così sarà rispetto a un’esperienza che in quasi sessant’anni di vita non ha perso d’attualità diventando, nel bene e nel male, un punto di riferimento per generazioni di artisti. Presente nei principali musei del mondo, non c’è grande collezione che ne possa fare a meno, da François Pinault a Bernard Arnault, da Dakis Joannou a Patrizio Bertelli e Miuccia Prada sino a Nancy Olnick e Giorgio Spanu. Uno status symbol che ha raggiunto in asta record milionari, ma che appare comunque assai più conveniente rispetto alla Pop art e a buona parte del Minimalismo, con ottime occasioni ancora al di sotto dei 200-300mila euro.
I prezzi appaiono generalmente più contenuti rispetto alla fase di maggior espansione che ha coinciso con il biennio 2015-17. Tra i top lot va segnalata «Torsione» del 1968, l’opera più emblematica di Giovanni Anselmo, che il 13 maggio 2015 da Christie’s a New York è stata aggiudicata per 6,4 milioni di dollari; tre giorni dopo da Christie’s a Londra «Italia dell’emigrante», realizzata da Luciano Fabro nel 1981, ha raggiunto 2,7 milioni di sterline. Quanto a Michelangelo Pistoletto, il prezzo più elevato risale al 6 ottobre 2017, giorno in cui, sempre da Christie’s a Londra, «Uomo che guarda un negativo» del 1967, che ritrae sulla superficie specchiante Alighiero Boetti, ha fatto fermare il martello del banditore a 3,7 milioni di sterline. Ma il più pagato di tutti è proprio Alighiero Boetti (l’esordio risale al 1967 quando è stata la Galleria Christian Stein, che l’anno prima aveva inaugurato la sede torinese, a organizzare la sua prima personale), che sino agli anni ’90 era rimasto in sordina con quotazioni estremamente contenute. Lo stesso Sperone ha venduto nel 1994, l’anno della scomparsa dell’artista, una sua «Mappa» al MoMA di New York per appena 30mila dollari. Oggi il prezzo di quell’opera si è moltiplicato in maniera esponenziale, come dimostra la vendita del 16 novembre 2022 da Sotheby’s a New York, quando una «Mappa» del 1989-91 proveniente dalla collezione di Francesco e Chiara Carraro ha conquistato il primato con un’aggiudicazione di 8,8 milioni di dollari. Ora gli occhi sono puntati su Parigi e gli investitori sognano che dalla Bourse le quotazioni tornino a decollare.
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