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Scatto fotografico di Andrea Susan con Lili, Wilma e altri amici, Casa Susanna, Hunter, Ny, 1964.68. Toronto, Art Gallery of Ontario. Acquisto con fondi donati da Martha LA McCain, 2015

Foto © AGO

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Scatto fotografico di Andrea Susan con Lili, Wilma e altri amici, Casa Susanna, Hunter, Ny, 1964.68. Toronto, Art Gallery of Ontario. Acquisto con fondi donati da Martha LA McCain, 2015

Foto © AGO

Casa Susanna, un luogo dove abbandonare il ruolo assegnato dalla società

Con un viaggio fotografico di 160 immagini, il Metropolitan Museum di New York rende omaggio a una storia scoperta per caso in un mercatino di Manhattan nel 2004

Negli anni Sessanta, mentre New York correva verso il futuro tra grattacieli e rivoluzioni culturali, un piccolo angolo di mondo, nascosto tra le montagne verdi dei Catskills, accoglieva un’altra, silenziosa rivoluzione. Si chiamava Casa Susanna e non aveva nulla di glamour: due resort modesti, un portico di legno, sedie pieghevoli, qualche camera spartana e un giardino che profumava di estate. Eppure, per una comunità di uomini rispettabili, mariti, padri di famiglia, professionisti in giacca e cravatta, quel luogo rappresentava l’unico spazio in cui potevano abbandonare il ruolo assegnato dalla società e indossare gonne, tacchi e rossetti senza temere giudizi o arresti. Fino al 25 gennaio 2026 il Metropolitan Museum rende giustizia a questa storia sommersa con la mostra «Casa Susanna». Un viaggio fotografico che riunisce circa 160 opere, provenienti dall’Art Gallery of Ontario, dalla collezione privata di Cindy Sherman e dal fondo del Met donato da Betsy Wollheim, e che ci restituisce le tracce di un’esistenza a metà, condotta tra la normalità diurna e la libertà di un weekend en femme. Un pezzo di storia rimasto per decenni invisibile, scoperto quasi per caso in un mercatino di Manhattan nel 2004, quando un collezionista trovò una scatola di foto e, inconsapevolmente, riaccese una memoria collettiva.

A quell’epoca si chiamavano «transvestiti», termine oggi fuori moda, ma allora essenziale per dire «io sono anche questo». La società non offriva altre parole, né spazi di comprensione. In pubblico, la legge di New York poteva punire chi indossava abiti dell’altro sesso; a casa, il silenzio e la vergogna erano la norma. Perciò, per ritrovarsi, servivano luoghi come quelli creati da Susanna Valenti e sua moglie Marie Tornell, che con spirito imprenditoriale e un’invidiabile apertura mentale costruirono un rifugio dove essere «se stessi», o meglio, l’altra parte di sé che non trovava cittadinanza nel mondo esterno.

La fotografia fu lo strumento con cui questo desiderio prese forma. Polaroid e stampe gelatin silver circolavano per posta o venivano scambiate durante i raduni, costruendo una rete sotterranea di legami e complicità che attraversava gli Stati Uniti. Nessuna velleità d’avanguardia: solo la necessità di vedersi e riconoscersi, di fissare un’immagine di sé che la società non voleva ammettere. La Polaroid, appena lanciata sul mercato, divenne un alleato prezioso: scattavi, aspettavi qualche secondo, e nessun laboratorio avrebbe mai potuto violare il segreto.

Curata da Isabelle Bonnet e Sophie Hackett, con Mia Fineman per il Met, la mostra attraversa tre gallerie tematiche: il ritratto intimo, la vita di gruppo e il dialogo con le questioni di genere contemporanee. Non mancano le pagine della rivista «Transvestia», pubblicazione sotterranea che, in anni in cui Internet era fantascienza, funzionava come manuale di sopravvivenza, confessionale e social network ante litteram: consigli di trucco e di abbigliamento accanto a poesie, racconti e testimonianze di chi viveva in clandestinità, cercando di non impazzire tra due vite inconciliabili.

Colpisce la normalità delle immagini: non ci sono personaggi teatrali o ribellioni rumorose, ma donne immaginate come «ragazze della porta accanto», casalinghe ordinate, signore perbene con il filo di perle e il grembiule stirato. Un ideale di femminilità rassicurante e rispettabile, che per chi lo interpretava rappresentava un atto di liberazione. È un cortocircuito affascinante: per scappare dalla rigidità del maschile si sceglieva il rifugio di un’altra rigidità, quella del modello femminile middle-class. Ma era una libertà necessaria, un primo passo verso la possibilità di immaginare alternative più ampie.

«Queste fotografie raccontano una storia di autoespressione potente», osserva Max Hollein, direttore del Met. Una storia che non fu mai pensata come arte, ma che oggi ci interroga come tale. Perché l’arte, in fondo, comincia quando qualcuno decide di fermare un istante che altrimenti andrebbe perduto. Casa Susanna lo fece con discrezione, trasformando un click di Polaroid in un atto politico, e privato, molto prima che la parola «queer» entrasse nel lessico pubblico.

A distanza di sessant’anni, quelle immagini non sono reliquie di un passato minore, ma frammenti di un futuro possibile. Guardarle oggi significa capire che ogni conquista di visibilità parte sempre da un gesto nascosto. Casa Susanna, piccola enclave di libertà, arriva dunque al Met per ricordarci che l’identità, come la pellicola fotografica, ha bisogno di luce, ma anche di un po’ di oscurità per svilupparsi.

 

Germano D’Acquisto, 08 agosto 2025 | © Riproduzione riservata

Casa Susanna, un luogo dove abbandonare il ruolo assegnato dalla società | Germano D’Acquisto

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