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Manuel Borja-Villel

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Manuel Borja-Villel

Borja-Villel racconta il suo Tàpies

Inizia nel Museo Reina Sofía di Madrid l’iter di una grande retrospettiva sull’artista catalano in occasione del centenario della nascita

Roberta Bosco

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Artista visionario, audace e sperimentale, Antoni Tàpies (Barcellona, 1923-2012) è stato uno dei protagonisti internazionali dell’arte della seconda metà del XX secolo. In gioventù fu tra i fondatori del movimento surrealista Dau al Set, che abbandonò per abbracciare l’arte astratta, diventando uno dei principali esponenti dell’Informale e della pittura materica. Le sue opere offrono una continua riflessione sulla condizione umana, sollevando problematiche ancora irrisolte come l’emergenza ecologica, la necessità di politiche sociali e il rispetto per i diritti umani e la diversità culturale. Attivista antifascista, fu un attivo difensore delle lingue in pericolo e in special modo della lingua e della cultura catalane. Nel 1990 creò la Fondazione che porta il suo nome nell’edificio modernista di Lluís Domènech i Montaner, attualmente sormontata dall’emblematica scultura aerea «Nuvol i Cadira», concepita come una piattaforma per divulgare e aiutare a comprendere l’arte contemporanea.

«Antoni Tàpies. Retrospettiva», curata da Manuel Borja-Villel, primo direttore della Fundació Tàpies, è l’evento più importante dell’Anno Tàpies, che commemora il centenario della nascita dell’artista. La mostra, che inizia nel 1943 con i primi autoritratti e alcuni lavori legati al gruppo Dau al Set, si conclude con i dipinti di carattere erotico degli ultimi anni. Il percorso, che ricollega opere rimaste a lungo disperse, è un’opportunità per recuperare ed esaminare gli aspetti formali e concettuali di Tàpies da una nuova prospettiva, che mette in luce aspetti sottovalutati o del tutto sconosciuti della sua opera. Dopo la presentazione al Bozar di Bruxelles dal 15 settembre 2023 al 7 gennaio 2024, la rassegna, che è stata concepita in modo diverso in ciascuna delle sedi previste, dal 20 febbraio al 23 giugno è allestita nel Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid con 220 opere, mentre dal 17 luglio al 12 gennaio 2025 sarà visibile alla Fundació Antoni Tàpies di Barcellona con un’ottantina di lavori.

Manuel Borja-Villel, quali sono le caratteristiche fondamentali di questa mostra?
Dall’ultima retrospettiva di Tàpies che ho curato nel 2004 sono passati vent’anni, per questo è importante recuperare Tàpies con un discorso diverso, che tiene conto delle eccezionali trasformazioni che si sono verificate in questo periodo. Tàpies faceva parte di un contesto etero patriarcale, che ora vacilla. L’artista narciso e romantico che si considerava un genio, e Tàpies un genio lo era davvero, ormai è improponibile. In questa mostra voglio affrontare la sua opera senza tesi prestabilite o fioriture letterarie, ma partendo dai ricordi e da una ricerca approfondita. Intanto Tàpies era un collezionista e un bibliofilo e questi aspetti della sua personalità influiscono direttamente sulla sua opera. È curioso il fatto che non avesse mai problemi a cedere le sue opere per una mostra, mentre era difficilissimo convincerlo a prestare opere della sua collezione. Senza l’aiuto di Teresa, sua moglie, sarebbe stato impossibile ottenerle e questo dimostra quanto gli interessasse il lavoro degli altri.

Quali sono le particolarità di Tàpies che affiorano in questa mostra?
Tàpies era famoso per il suo rifiuto delle collettive, non le sopportava. Forse la sua fobia risaliva agli anni Sessanta, quando la dittatura franchista, per promuovere l’arte spagnola, organizzava rassegne collettive alle quali era obbligato a partecipare perché erano l’unico modo per essere visto e conosciuto all’estero. Ciò nonostante non era un artista isolato, così come non lo erano le sue opere. Per usare le sue stesse parole: «creava ambienti». Prima di iniziare a dipingere, collocava gli elementi dell’opera per terra: uno straccio, la tazzina del caffè, la pentola dove Teresa stava cucinando... In questo modo introduceva nel suo lavoro una componente teatrale e performativa.

Conosceva e ammirava il critico e storico dell’arte romano Enrico Crispolti, che nel 1976 curò alla Biennale di Venezia la mostra «L’ambiente come sociale» e si collegava al suo pensiero con opere che rendono il pubblico partecipe di un «ambiente» che lo circonda, lo accoglie e ricerca il suo intervento. Pensava continuamente a nuovi formati come se si trattasse di una partitura musicale: riteneva che la musica, liberata dalla narratività più tradizionale, costituisse una forma di espressione estremamente pura e trasferiva nella pittura questa metodologia. Tutto ciò si materializza nella mostra in un percorso narrativo che rivela aspetti che vent’anni fa semplicemente non vedevamo.
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In che cosa consiste l’attualità di Tàpies?
Esistono aspetti dell’opera di Tàpies che si manifestano in modo diverso allo sguardo contemporaneo. Aspetti che non abbiamo percepito fino ad oggi e che rendono evidente la necessità di recuperare il suo spirito avanguardista. È sempre stato un artista in anticipo sui tempi, precursore di dibattiti oggi assolutamente attuali. Lo dimostrano le opere in cui rompe con la separazione tra poetica e politica (detestava l’arte politica didascalica), tra umano e non umano, attribuendo determinate qualità alla materia inerte e proponendo un innovativo rapporto con la scienza e con il pensiero di altre culture, sconosciute o neglette, di matrice orientale, afrodiscendente e indigena. Era molto interessato alla fenomenologia e si interessò al pensiero di autori contemporanei come Timothy Morton (filosofo, autore del concetto di Dark Ecology, che propone di ripensare l’ecologia e l’arte abbandonando la visione antropocentrica e paternalista, Ndr). Creava nuove opere solamente da fine maggio a fine settembre e nei mesi freddi si dedicava alla ricerca, a leggere, viaggiare, scrivere e ampliare le sue già vaste conoscenze.

Com’è possibile connettere le opere di Tàpies con il pubblico contemporaneo?
Il percorso espositivo inizia dagli autoritratti degli anni Quaranta e termina con la serie «Cartes per a la Teresa» (Lettere a Teresa) che rendono omaggio al rapporto tra i due, in cui plasma l’amore per l’altro (un sentimento che si carica di una chiara connotazione politica in un momento in cui il rantolante franchismo sferrava gli ultimi e più crudeli colpi. Un anno dopo il dittatore moriva nel suo letto ancora come capo di Stato, Ndr). Questa revisione storica non solo rivela un Tàpies inedito, ma contribuisce a tracciare una nuova genealogia dell’arte contemporanea. In mostra ci sono opere mai viste, molte provenienti da collezioni private, che permettono di stabilire nuove letture e collegamenti. Per la prima volta nella mia carriera sono riuscito a ottenere in prestito dal Meadows Museum di Dallas «Gran Relleu Negre» del 1973.

Perché Tàpies non ha raggiunto la visibilità di altri artisti tra il grande pubblico? È troppo intellettuale?
Forse, ma credo che sia un problema generale delle seconde avanguardie, più complesse rispetto alle avanguardie storiche, da sempre di più facile comprensione e quindi più popolari. È incredibile, i giovani conoscono autori come Donna Haraway, ma non sanno chi è Tàpies. È un artista che può e deve essere riesaminato dalla contemporaneità, senza negare la necessità di rivendicare nuove epistemologie.

Come viveva Tàpies l’essere catalano e indipendentista?
Tàpies ha avuto un ruolo centrale e cruciale in Catalogna, nella storia dell’arte, ma non solo. È diventato un simbolo. La sua figura ha preso il sopravvento sull’opera, per questo io voglio recuperarne l’opera, non la figura. Tàpies praticava quello che ora chiamiamo arte situata, solo i brand parlano da una prospettiva globalizzata, non l’arte. Tàpies si rivolgeva al mondo dalla Catalogna, non parlava della Catalogna.

Perché la Fondazione a lui intitolata sarà la terza sede della mostra?
Le date rispondono alla disponibilità dei musei coinvolti. L’importante era che la mostra viaggiasse e ricordasse la figura e l’opera di Tàpies in più luoghi.

Che cosa ricorda di più del vostro rapporto?
Io arrivavo dagli Stati Uniti con una pratica di critica istituzionale molto analitica. Il rapporto con Tàpies e Teresa fu una rivelazione: lavorare nello studio, allestire le mostre, discutere di tutto e condividere la quotidianità. Ho diretto la Fundació Tàpies per dieci anni con la massima libertà. Abbiamo litigato solo tre volte e una volta siamo stati senza parlarci per un paio di mesi, ma era una divergenza di tipo familiare, tra persone che si vogliono bene e sanno che si metteranno d’accordo. Per chiedergli un incontro gli mandai una terribile lettera di tre pagine, di quelle che si scrivono con l’entusiasmo e l’arroganza della gioventù. Tàpies mi rispose e mi diede un appuntamento. Era un tipo straordinario, dopo cinque minuti che parlavamo mi chiese dove alloggiavo. Io stavo in una pensione infame. «In quel posto non puoi lavorare, vai a prendere le tue cose, starai qui», mi disse. Ero così sorpreso che lo feci senza battere ciglio e così iniziò la nostra storia.

Roberta Bosco, 16 febbraio 2024 | © Riproduzione riservata

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