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«Untitled», un’immagine tratta dalla serie «Or Blanc (White Gold)» di Massow Ka

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«Untitled», un’immagine tratta dalla serie «Or Blanc (White Gold)» di Massow Ka

Azu Nwagbogu: «La cosa più radicale che un festival d’arte può fare è mettere il pubblico a disagio»

La 15ma edizione di LagosPhoto, «Incarceration», ci mette di fronte a «prigioni fisiche e gabbie mentali, plasmate da vincoli invisibili mai messi in discussione». Parola al direttore

Gilda Bruno

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Azu Nwagbogu (Lagos, 1975), fondatore e direttore della African Artists’ Foundation, nonché di LagosPhoto, il festival di arti visive e fotografia nigeriano nato nel 2010, non le manda a dire: «Sono stanco della narrazione che lega l’esperienza diasporica al trauma dello sradicamento. A volte è così, certo. Ma spesso questa cornice diventa essa stessa una prigione», commenta a «Il Giornale dell’Arte» riguardo alla presenza di numerosi artisti provenienti dalla diaspora africana tra i 59 protagonisti della 15ma edizione di LagosPhoto. Quest’anno il festival si interroga sul concetto di «Incarceration», che viene spontaneo collegare allo stato di limbo con cui chi è chiamato a riconciliarsi con le diverse sfaccettature della propria identità può dover fare i conti. Ma le parole di Nwagbogu ribaltano questa prospettiva. 

«Prendi la regista e scrittrice Nuotama Bodomo, la quale, attiva tra Ghana e Stati Uniti, smantella le narrative coloniali attraverso ciò che definisce “ritmi afro-indigeni”, spiega. Il suo lavoro non ricuce due mondi separati, ma mostra come questi siano stati separati artificialmente fin dall’inizio». È questo muoversi tra realtà apparentemente discordanti che, a detta del fondatore, permette agli artisti più radicali di accedere a frequenze che chi è confinato in un unico luogo non può percepire. Una visione simile guida la nigeriana Yagazie Emezi, la cui produzione, incentrata su tessuti, archivi e rituali, rappresenta «sistemi di conoscenza che non si sono mai davvero spezzati ma sono, semmai, stati oscurati». Plasmati dal conflitto, i paesaggi spettrali del documentarista etiope Geremew Tigabu mostrano come il trauma abiti nella terra stessa e condizioni persino la nostra capacità di immaginare altri futuri. Mentre, rivolgendo lo sguardo verso coloro che navigano nei sistemi di frontiera, lo spagnolo César Dezfuli «rivela la libertà presente persino all’interno di sistemi carcerari».

Programmato per il 25 ottobre (fino al 29 novembre), il ritorno di LagosPhoto vede 26 personali, quattro mostre collaborative e altrettante iniziative istituzionali approdate in diverse location di Lagos e Ibadan. Tra queste, Freedom Park, un «luogo di contenimento reso luogo d’aggregazione», sorto sulle fondamenta della prima prigione coloniale nigeriana; il complesso dell’ex Federal Palace, dove nel 1960 fu firmata la dichiarazione d’indipendenza della Nigeria e che oggi ospita la sede della Nahous Gallery, piattaforma all’intersezione tra arte, moda e design curata da Richard Vedelago, inaugurata lo scorso luglio; e The New Culture Studios, progetto architettonico del primo post-indipendenza che, disegnato nel 1967 dal visionario Demas Nwoko, «incarna la spinta ottimistica verso nuove forme d’essere e di coscienza», scontrandosi però con il tessuto urbano della Ibadan di oggi. Ne parliamo con il direttore.

Geremew Tigabu, «Untitled» da «Eye of the Storm»

LagosPhoto 2025 è la prima edizione del festival ad assumere un formato biennale. In che modo questo incide sulle storie raccontate al suo interno?
Quando abbiamo deciso di diventare un festival biennale, ci hanno chiesto: «Perché proprio ora?». E la verità è che eravamo esausti. Non ho rimpianti per il lavoro svolto negli anni passati nella sua formula originale, perché era, al tempo, necessaria. Se ripenso al panorama del 2010, quando abbiamo lanciato LagosPhoto, percepisco una minore urgenza rispetto al ritmo e alla decelerazione che un evento biennale consente. Lavorare con la nuova generazione di curatori e fare ciò che posso per sostenere le loro idee, dar loro spazio per crescere, imparare e prosperare, mi entusiasma molto. Per questo, c’è bisogno di respiro. «Incarceration», titolo del festival di quest’anno, segna la nostra liberazione dalla velocità e della pressione della cadenza annuale: perché le forme più insidiose di prigionia, quelle psicologiche e spirituali di cui parlo nel comunicato stampa, sono proprio quelle che ci autoimponiamo.

Da sempre LagosPhoto contrasta «l’afro-pessimismo» attraverso progetti che riscrivono la percezione dell’Africa dall’interno. Che cosa accomuna gli artisti presenti nel programma di quest’anno?
Il «contrastare l’afro-pessimismo» mi è sempre sembrata una narrazione limitante. È reattiva: ci definiamo per ciò che non siamo, invece che per ciò che siamo. Quest’anno ero interessato ad artisti che non cercassero di correggere la percezione altrui sull’Africa, ma che si limitano a fare il loro lavoro. Il curatore di questa edizione è Courage Kpodo: è stato lui a scegliere i partecipanti, quasi senza alcun mio intervento. Questi 59 artisti non sono il frutto di una missione volta a dimostrare la vitalità dell’Africa. Il team cercava storie con «narrazioni libere», sganciate dalle visioni riduttive che oggi dominano il paesaggio visivo, artistico e culturale. Artisti disposti a confrontarsi con verità scomode senza fretta di risolverle. Pensiamo al lavoro di Shirin Neshat sulla «violenza che aleggia negli Stati di apparente libertà», che scava a fondo su che cosa significhi realmente la libertà quando si sono interiorizzati i propri sistemi di sorveglianza. O alle potenti speculazioni a tema climatico dell’artista e accademico Sharbendu De, il quale sceglie di abitare quel futuro, immaginarlo pienamente, senza offrire false speranze. Il formato biennale ci consente di andare oltre i limiti della macchina fotografica. Questi artisti usano tessuti, suono, performance, aggirando il suo bagaglio coloniale. Il lavoro tessile di Ayobami Ogungbe sulle texture dello spostamento va oltre il medium, ma resta creazione d’immagine nella sua essenza più pura: costruisce un linguaggio visivo che non dipende dallo sguardo estrattivo della fotocamera. Courage Kpodo e i cocuratori Kadara Enyeasi, Robin Riskin, Maria Pia Bernardoni, e Brook Getachew hanno selezionato artisti che non temono la realtà. Non si tratta di contrapporre una propaganda a un’altra, ma di raccontare vite, persone e luoghi, sempre con sfumature, emozione e un senso di speranza. Nell’esaminare la prigionia da una prospettiva africana, non partiamo da uno stato di libertà intatta che poi è stato corrotto. Partiamo dalla conquista, da sistemi progettati fin dall’inizio per contenerci. I nostri artisti non piangono la libertà perduta. La inventano da zero. Ed è più radicale di qualsiasi cosa stia accadendo oggi nell’arte occidentale.

Ayobami Ogungbe, «For The Love of God» da «Process and Place»

«Incarceration» esplora la prigionia fisica, intellettuale, psicologica, mentale, sociale o digitale attraverso i lavori di 59 protagonisti. Ci parli di ciò che l’ha spinta ad affrontare questo tema.
Mi ha colpito osservare come abbiamo festeggiato la fine dei lockdown per poi rientrare subito nelle nostre gabbie digitali. Il panopticon dei social media di cui ho scritto non è più una teoria astratta: è la nostra realtà quotidiana. Quando ho iniziato a riflettere sulla prigionia, mi sono reso conto che in Africa ne discutiamo da secoli e che quando parlo di «Incarceration», in realtà voglio parlare di libertà. Pensiamo di essere liberi perché possiamo postare su Instagram, senza accorgerci della prigionia dentro gli algoritmi. Gli influencer new age ci vendono l’idea che «siamo abbastanza», senza però mostrarci l’ambizione morale di chiedere più gentilezza, carità e compassione per gli altri. Stiamo costruendo una società profondamente narcisista. Un tempo celebravamo il «cool» nella cultura, nell’arte, nella moda, nelle sensibilità. Oggi celebriamo il volgare e il rumoroso. Guardate i grandi marchi di moda che producono abiti carcerari per i cittadini. Le etichette non stanno più all’interno, ma all’esterno. Restiamo intrappolati in narrazioni sul successo che non ci appartengono. Mettiamo in scena la libertà, ma viviamo in prigioni ideologiche.

In un’epoca in cui la libertà è, in ciascuna delle sue sfaccettature, sotto minaccia, che cosa spera accenda il LagosPhoto 2025 nei visitatori?
Sa che cosa non voglio? Non voglio che le persone escano dal festival sentendosi ispirate o potenziate, o con qualcuna di quelle emozioni vuote da festival. Sarebbe solo un’altra forma di consumo. Voglio disagio produttivo. Oggi parliamo di «libertà e giustizia» in modo performativo. Le persone condividono i post giusti, dicono le cose giuste, ma vivono ancora nelle stesse gabbie mentali con cui sono entrate. Voglio che i visitatori affrontino la propria complicità. Non solo nei sistemi evidenti, ma nei modi sottili in cui abbiamo interiorizzato la nostra stessa prigionia. Quando qualcuno sarà al Freedom Park di fronte a un’opera sulla sorveglianza digitale, voglio che capisca che la prigione coloniale sotto i suoi piedi e l’algoritmo nel suo telefono fanno parte dello stesso sistema di controllo. Più di questo, voglio che la gente inizi a mettere in discussione le storie che racconta a sé stessa sulla propria libertà. Se qualcuno, lasciato il festival, lo posta subito sui social, avrò fallito. Se invece uno, nell’uscire, comincia a notare come le proprie scelte quotidiane siano plasmate da vincoli invisibili mai messi in discussione… se inizia a vedere diversamente la propria città, le proprie relazioni, persino i propri desideri… allora è accaduto qualcosa di reale. La maggior parte di chi dice di volere «libertà e giustizia» non è pronta a ciò che la libertà richiede: il rinunciare a certezze, zone di comfort, e alle storie su noi stessi che ci tengono intrappolati. Voglio che LagosPhoto 2025 mostri alle persone le sbarre che esse stesse hanno creato. Non è ispirazione. È iniziazione. Con tutta la politica performativa e il virtue signaling, la cosa più radicale che un festival d’arte possa fare è mettere le persone a disagio con la propria complicità, nella loro prigionia.

Shirin Neshat, uno still dal video «The Fury»

Gilda Bruno, 26 settembre 2025 | © Riproduzione riservata

Azu Nwagbogu: «La cosa più radicale che un festival d’arte può fare è mettere il pubblico a disagio» | Gilda Bruno

Azu Nwagbogu: «La cosa più radicale che un festival d’arte può fare è mettere il pubblico a disagio» | Gilda Bruno