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Il Palazzo di Giustizia a Roma, sede della Corte di Cassazione. © Sergio d'Afflitto

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Il Palazzo di Giustizia a Roma, sede della Corte di Cassazione. © Sergio d'Afflitto

Autentiche a termine. Da rinnovare ogni 10 anni!

Per la Corte Suprema di Cassazione il termine di prescrizione di dieci anni non decorre dalla dichiarazione di falsità, ma dal giorno dell’acquisto. Illogico e inverosimile

Giuseppe Melzi, Filippo Arnold Ristuccia

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La legge impone al venditore professionale di un’opera d’arte di consegnare, unitamente all’opera stessa, un’idonea documentazione che attesti la sua autenticità o, quantomeno, la probabile attribuzione e provenienza, solitamente su copia fotografica. Oppure il venditore dovrà rilasciare e sottoscrivere una dichiarazione con tutte le informazioni di cui dispone sull’autenticità o sulla probabile attribuzione della paternità dell’opera, così da renderla spendibile sul mercato.

Tale documentazione, nel gergo nota come «autentica», può essere rilasciata da diversi soggetti: l’artista autore dell’opera, la galleria che lo sostiene, archivi e fondazioni intitolati all’artista, comitati scientifici, esperti d’arte o consulenti tecnici, nominati dal Tribunale, nel corso dei giudizi aventi ad oggetto l’autenticità. Ma se ritenete, in virtù del possesso di autentica, di non avere problemi, a distanza di anni dall’acquisto, a porre l’opera sul mercato rischiate di rimanere delusi.

Che cosa accadrebbe se, a distanza di decenni, scopriste che in realtà la vostra opera è un falso? Quali tutele giuridiche potreste invocare nei confronti del venditore qualora possediate un’opera accompagnata da autentica, a fronte della dichiarazione di non autenticità proferita decenni dopo dagli eredi dell’artista o dalla sua fondazione o dall’esperto di riferimento a livello internazionale? Ecco la risposta: poco o nulla! Perché secondo un emergente orientamento della Suprema Corte di Cassazione, l’autenticità di un’opera rischia di avere «scadenza» decennale…

Al compratore al quale l’autenticità dell’opera era stata garantita, spetta il diritto di agire per la risoluzione del contratto, con contestuale richiesta di risarcimento dei danni, per l’inadempimento imputabile al venditore. Fatta questa premessa, la legge, nel caso di vendita «aliud pro alio», ovvero di un’opera d’arte negoziata come creazione di un artista ma in realtà realizzata da un falsario, ammette l’esercizio dell’azione contrattuale di risoluzione, o di adempimento ai sensi dell’articolo 1453 Codice civile, la quale è tuttavia soggetta al termine di prescrizione ordinaria decennale. Il passare degli anni non incide soltanto sul valore delle opere, ma anche sul decorso del termine prescrizionale, che secondo la più recente e consolidata giurisprudenza di legittimità decorre dalla conclusione del contratto di vendita e non dal successivo momento in cui l’acquirente viene a conoscenza della falsità dell’opera.

Avviene che il collezionista che possiede un’opera da più di dieci anni, accompagnata da idonea certificazione rilasciata dal gallerista al momento dell’acquisto, sia costretto a rivolgersi agli eredi o alla Fondazione dell’artista per ottenere un aggiornamento del certificato di autenticità, perché ritenuto essenziale per realizzare la vendita, soprattutto dalle case d’asta internazionali. In tali casi, qualora la nuova expertise richiesta non dovesse confermare l’autenticità, il collezionista subirà un grave danno economico, non risarcibile! Essendo decorso il termine decennale di prescrizione dal giorno dell’acquisto, il compratore non può più nemmeno agire per ottenere un risarcimento dal venditore… Il diritto all’azione sarebbe infatti prescritto! Tale incomprensibile orientamento giurisprudenziale è del tutto illogico, per non dire assurdo: l’acquirente, prima che siano decorsi dieci anni, dovrà attivarsi per ottenere ciclicamente un aggiornamento dell’autentica, rivolgendosi di volta in volta alla Fondazione, all’archivio o all’esperto di riferimento.

In due «history case» la Cassazione ha disatteso l’orientamento più sensato, dei giudici, secondo i quali il termine prescrizionale inizia a decorrere non dal giorno dell’acquisto, bensì dal giorno in cui l’acquirente viene a conoscenza della falsità dell’opera. Il primo eclatante caso riguarda un arazzo attribuito ad Alighiero Boetti, venduto da Telemarket Spa al signor Giovanni Gioiella l’1 dicembre 1994, munito di certificazione di autenticità. Il 10 dicembre 2004, ovvero a distanza di dieci anni e nove giorni dalla compravendita, l’acquirente si rivolgeva all’Archivio Boetti al fine di ottenere un aggiornamento dell’autentica, ottenendo una lapidaria dichiarazione di «non autenticità dell’arazzo», il che lo indusse ad agire in giudizio per ottenere la risoluzione del contratto e il risarcimento dal venditore del danno economico subito.

Nel corso del processo, nei tre gradi di giudizio, la Corte d’Appello di Genova (con la sentenza n. 308/2013, depositata il 4 marzo 2013) rigettava l’eccezione di prescrizione (decennale), affermando che «il diritto del Gioiella a ottenere la risoluzione del contratto» non era prescritto, in quanto «il termine di prescrizione ordinaria nella specie è iniziato a decorrere solamente dal giorno in cui il Gioiella ha avuto effettiva contezza della lesione dei suoi diritti, e dunque dal giorno (6.12.2004) in cui ha fatto sottoporre l’arazzo per cui è causa a perizia presso l’Archivio Alighiero Boetti e gli è stata rivelata la non autenticità del medesimo».

Tale decisione, logica e rispondente ai diritti dell’acquirente, veniva ribaltata dalla Cassazione che affermava (sentenza n. 1889/2018, depositata il 25 gennaio 2018) che «la Corte d’Appello di Genova, sancendo che il termine di prescrizione decennale dell’azione di risoluzione per inadempimento da aliud pro alio… decorresse soltanto dalla acquisita conoscenza soggettiva in capo al compratore della diversità del bene alienato, ha deciso la questione di diritto ad essa sottoposta in modo non conforme all’orientamento di questa Corte». Per la Cassazione, infatti, «la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere», ovvero dal giorno della compravendita.

Rilevante è dunque il «momento in cui ha luogo l’inadempimento e si concreta la manifestazione oggettiva del danno», mentre nessun valore ha il momento successivo della scoperta della falsità dell’opera da parte dell’acquirente, «conoscenza che potrebbe essere colpevolmente ritardata pure per incuria del medesimo titolare del diritto». È una gravissima ripercussione che i collezionisti d’arte non possono più ignorare. In pratica, il collezionista dovrebbe, ogni dieci anni, ottenere dall’ente o dall’esperto preposto alla certificazione delle opere dell’autore, un aggiornamento dell’autentica già a proprie mani.

In un secondo caso, il proprietario da decenni di un’opera di Gino Severini, documentata dal carteggio che ne ricostruisce i passaggi di proprietà nel corso del ’900 nonché da ben tre certificazioni di autenticità rilasciate negli anni dagli eredi dell’artista, ma ormai piuttosto datate, a richiesta di una primaria case d’aste internazionale di una conferma delle certificazioni di autenticità, ricevette dall’Archivio dell’artista, come sempre più spesso accade, un giudizio di falsità, dunque sconfessando quei documenti e le certificazioni degli eredi dell’artista che per quasi un secolo ne avevano affermato l’autenticità.

Per l’orientamento della Cassazione, il proprietario non solo non può alienare l’opera, pena il reato di truffa, ma non può neanche agire nei confronti del venditore. In un terzo caso la sentenza della Corte di Cassazione (sentenza n. 19509/2012, depositata il 9 novembre 2012) riguardava un processo iniziato nel 1991 per la risoluzione di un contratto di compravendita di un’opera di Giorgio de Chirico, acquistata il 31 novembre 1970, ma dichiarata falsa nel corso di un processo penale nell’anno 1985.

Ancora una volta la Corte d’Appello (di Firenze in questo caso) aveva dichiarato che «la decorrenza del termine prescrizionale non poteva non coincidere con quello in cui l’acquirente era venuto a sapere della falsità del quadro acquistato e, in senso stretto, lo ha saputo con certezza solo con il passaggio in giudicato della sentenza penale (1985)». Ma la Suprema Corte cassava la sentenza di secondo grado, affermando che «il diritto di richiedere la risoluzione e il conseguente diritto al risarcimento danni, ai sensi dell’articolo 2946 Codice civile, è soggetto alla prescrizione ordinaria e il termine di prescrizione incomincia a decorrere dal momento in cui si è verificato l’inadempimento che, nel caso di specie, coincide dalla consegna del quadro».

Quasi a schernire il collezionista, la Cassazione ha anche affermato che «il compratore avrebbe dovuto attivarsi per tempo per ricerche sull’autenticità del quadro, sul periodo storico, sulla figura del venditore, sulla documentazione consegnatagli […] ed agire in via giudiziale contro il venditore entro i termini di prescrizione. Pertanto, se il termine di prescrizione decorre senza che il compratore (il titolare del diritto) si attivi (sebbene sia in buona fede o ignori i propri diritti) non potrà far valere i suoi diritti nei confronti del “venditore scorretto”». In conclusione, la tutela in perpetuo dell’opera acquistata, a parere degli ermellini non è di fatto ipotizzabile se non mediante l’attivazione ogni dieci anni di un’autentica da parte del soggetto in tale momento riconosciuto il più autorevole.
 

Il Palazzo di Giustizia a Roma, sede della Corte di Cassazione. © Sergio d'Afflitto

Giuseppe Melzi, Filippo Arnold Ristuccia, 29 marzo 2019 | © Riproduzione riservata

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