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Al centro dell’arena per vivere il Colosseo a 360 gradi

Maria Claudia Clemente e Francesco Isidori di studio Labics, raccontano il progetto per la copertura dell’arena dell’Anfiteatro Flavio: «Roma ci ha insegnato a dialogare con le preesistenze e a un’architettura che accoglie ricreando continuamente spazi e luoghi». Dopo Palazzo dei Diamanti a Ferrara ora lavorano al Padiglione Centrale della Biennale di Venezia

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Alessandra Mammì

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«Un rudere può suscitare sensazioni romantiche di malinconia, nostalgia... Quelle sensazioni che hanno permesso a Giovan Battista Piranesi di fare una bellissima interpretazione della magnificenza romana. Ma per noi, appassionati di strutture, il rudere è soprattutto l’essenza di un’architettura. È una dimostrazione di potenza e persistenza non più disturbata dall’effimero o dalla decorazione. Quindi, per quanto possa essere coinvolgente il fascino dell’edera, in un rudere io non vedo perdita o decadenza, ma forza». Parole di Maria Claudia Clemente (Roma, 1967), pronunciate di fronte alle piante e ai progetti che prefigurano la futura immagine del Colosseo e accanto a Francesco Isidori (Roma, 1971), socio e sodale nell’impresa di riportare il monumento più famoso del mondo alla sua funzione teatrale e scenografica grazie alla copertura totale dell’arena. Siamo a Roma, quartiere Prati, nella sede di Labics, lo studio di architettura e pianificazione urbana che loro due hanno fondato nel 2002 intorno all’idea di «architettura come struttura»: un viatico a cui restano fedeli pur attraversando sfide non facili e tempeste polemiche.

Quella con Vittorio Sgarbi, ad esempio, per l’ampliamento di Palazzo dei Diamanti a Ferrara dove riuscirono a convincere della bontà del progetto lo storico dell’arte che alla fine, ravveduto, ha inaugurato con piena soddisfazione la loro leggera, luminosa e funzionale struttura. O ricuciture geniali per far vivere i monumenti, come la stupefacente passerella ai Mercati Traianei a Roma che con meraviglia permette di camminare a mezz’aria sopra le rovine del Foro. Infine scommesse, soprattutto quelle che li aspettano nei prossimi mesi. Un viaggio nel tempo che proietta Labics tanto nel nostro più prestigioso passato (il Colosseo) quanto verso il futuro dell’arte internazionale grazie al rifacimento del Padiglione Centrale nei Giardini della Biennale a Venezia, su cui già stanno lavorando. E sono proprio il passato, il futuro, la memoria e la responsabilità dell’architetto i temi di questo incontro.

La passerella a Palazzo dei Diamanti. Foto: Marco Cappelletti. Cortesia Labics

Un render della futura immagine dell’interno del Colosseo. Cortesia Milan Ingegneria, Fabio Fumagalli, Labics

Siete uno degli studi più innovativi, sperimentali e stimati del Paese ma toccare il Colosseo è enorme responsabilità. Come vivete questo progetto?

Francesco Isidori: Tutto nasce nel 2020 da un bando per la ricostruzione del piano dell’arena dove furono invitati architetti e ingegneri. Un bando complesso pieno di vincoli perché si chiedeva di ricostruire il piano ma non nascondere le strutture dell’ipogeo e tener conto, poi, del problema di umidità che non è indifferente. Il Colosseo fu costruito, infatti, al posto del lago artificiale che completava la Domus Aurea di Nerone e ancora oggi lì sotto scorre l’acqua del fosso labicano. Nonostante questo l’imperatore Vespasiano decise di trasformare il lago privato in uno stadio per 80mila persone e restituire quell’area alla città. Fu un gesto politico, un’operazione di consenso, ma il problema dell’acqua rimaneva, per questo fu interrato intorno al IX secolo e solo alla fine del XIX si comincia a scavare per riportare alla luce le strutture sotterranee. Quindi l’immagine del monumento che abbiamo è falsata. Quei muri in realtà nei tempi imperiali erano invisibili, nascosti dal piano dell’arena. Il bando chiedeva di coprirli ma al tempo stesso non nasconderli perché anche la recente memoria del monumento va conservata.

Un bel rebus. Con quale soluzione avete vinto?

Maria Claudia Clemente: Siamo andati per esclusione: non potevamo proporre una ricostruzione filologica sia perché le murature che sostenevano quel piano erano in gran parte crollate, sia perché quel piano interrato è ormai parte dell’immagine del Colosseo e nasconderlo del tutto sarebbe stato una cancellazione culturale. Ci siamo allora rivolti a Milan ingegneria che è uno studio non sono solo di ingegneri ma progettisti strutturali che ragionano come architetti. La soluzione proposta è una specie di macchina scenica. Un piano composto dall’insieme di lame in carbonio rivestite in legno, ognuna lunga quattro metri e ognuna dotata di un movimento autonomo, capace unirsi, dividersi, accatastarsi l’una sull’altra lasciando completamente libera la vista dell’ipogeo.
 

Non temete che questo ambizioso progetto voluto fortemente dall’ex ministro Franceschini susciti ora polemiche con la nuova amministrazione e in particolare con il sottosegretario Sgarbi?

M.C.C. Nessun timore. Ogni problema con Vittorio Sgarbi è stato superato e i nostri rapporti sono ora del tutto sereni. Mentre l’attuale ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, ha confermato il progetto e si è già dichiarato disposto a celebrare la posa della prima pietra.

Siete entrambi architetti nati e cresciuti a Roma. Da «cives romani» che rapporto avete con la memoria e la classicità?

F.I. Roma è architettura di spazio esterno disegnato come fosse interno, fatto di sorprese, carico di una teatralità che inevitabilmente fa parte di noi. Un’architettura di vuoti, tridimensionalità, grandi volumi scavati. Pensiamo alle Terme di Caracalla ad esempio. È una spazialità che rimane impressa nella memoria e non solo in quella degli architetti.

M.C.C. In quanto romani siamo abituati a vedere una città che si riscrive continuamente senza mai azzerare le tracce del suo passato. È una città che ci ha insegnato a dialogare con le preesistenze e a guardare a un’architettura che si fa accoglienza creando e ricreando continuamente spazi e luoghi.

Dal passato al futuro: come immaginate la ristrutturazione del Padiglione della Biennale a Venezia?

M.C.C. Un progetto soprattutto di chiarificazione e pulizia dei percorsi e della struttura per semplificare quel tragitto troppo avvitato che ora affatica il visitatore.

Come quel grande soppalco centrale che uccide la grande sala e ne trasforma la metà in un sottoscala?

F.I. In realtà quella soluzione nasce come progetto di Carlo Scarpa, che da grande architetto qual era lo aveva immaginato ben più articolato e leggero. Poi nel tempo sono intervenute modifiche ed effettivamente ora quella sopraelevazione va ripensata anche in funzione della nuova qualità e la spazialità delle opere. Ma siamo al lavoro su tutto lo spazio espositivo per renderlo adeguato alle esigenze dell’arte a noi contemporanea.

Tornando al Colosseo, lavorare quotidianamente sul monumento vi ha reso indifferenti alla meraviglia?

F.I. Questo mai. Ad ogni sopralluogo la prima mezz’ora è di meraviglia, solo dopo si comincia a lavorare.

M.C.C. La mia totale meraviglia sarà quando, a progetto terminato, dritta in piedi al centro dell’arena potrò girarmi intorno e vivere per la prima volta il Colosseo a 360 gradi. Sono secoli che aspettiamo questa visione.

Alessandra Mammì, 19 maggio 2023 | © Riproduzione riservata

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