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Carolina Sandretto
Leggi i suoi articoliÈ stata inaugurata al MoMA di New York la mostra fotografica che avvia la stagione della fotografia 2025-2026. «New Photography 2025», con il titolo «Linee di Appartenenza», espone fino al 17 gennaio 2026 il lavoro di 13 artisti che arrivano da quattro città, Johannesburg, Kathmandu, New Orleans e Città del Messico, ed esplorano forme varie di interdipendenza, come amore, solidarietà, cura e memoria: i fili conduttori della mostra.
Giunta alla 40ma edizione, New Photography dimostra di essere ancora una volta una visione imprescindibile nel panorama della fotografia e delle direzioni nelle quali sta andando.
Gli artisti selezionati vivono e lavorano in città complesse, moderne megalopoli ricche di contrasti, esistite come centri di vita, creatività e comunione per più tempo degli stati nazionali in cui si trovano. Questo senso di appartenenza al mondo globale vuole «essere un’opportunità per una riflessione curatoriale sulle espressioni creative di parentela e solidarietà in un momento politico tumultuoso, centrando artisti che sostengono le comunità e facendo emergere i fili connettivi all’interno, attraverso e oltre l’idea di confini», afferma Roxana Marcoci, curatrice capo ad interim del MoMA.
Le prime opere sono grandi fotografie di Renee Royale (New York, 1990), della serie «Landscape Matters». Le forme rappresentate sono chiaramente naturali, ma non sono subito comprensibili per il visitatore. Le fotografie hanno una texture molto decorativa e attraggono lo sguardo. La realtà è più disturbante. Royale utilizza una macchina fotografica Polaroid per documentare siti ecologicamente compromessi in Louisiana. Successivamente, immerge la stampa istantanea in un barattolo di terra, acqua e materiale vegetale per un ciclo lunare. Questo rituale basato sul tempo simboleggia la «violenza lenta» del colonialismo e della schiavitù, che hanno avuto enormi impatti sul mondo naturale. Ingrandendo poi queste stampe, Royale astrae un paesaggio creato dagli elementi naturali e dal degrado dell’ambiente: «Voglio testimoniare i messaggi che la terra sta lasciando dietro di sé nel labirinto del tempo profondo».
Sempre nella stessa stanza, il collettivo Lake Verea dice che «una delle ossessioni del nostro lavoro, è vedere l’architettura come un’entità vivente». Le loro fotografie del Palazzo delle Belle Arti di Messico City, capolavoro di Federico Mariscal del 1920, sono come creature viventi a grandezza naturale. Le fotografie sono giganti e scendono dal soffitto rispettando la naturale piega della carta, prive di qualsiasi protezione o cornice. La verticalità richiama l’idea del palazzo e permette ai simboli atztechi, maya e greci di prendere vita nella stanza.
Un’altra opera evoca l’ambiente ma anche la memoria, quella di Lindokuhle Sobekwa (Johannesburg, 1995), fotografo sudafricano che ha costruito all’interno della sala il suo albero genealogico. «uMthimkhulu» («Il grande albero») è un lavoro interattivo che mappa una moltitudine di generazioni della sua famiglia. I fogli di carta disegnati con radici, tronco e foglie sono cosparsi da fotografie di antenati e di sé stesso. Ci sono i nonni, i simboli della sua appartenenza, le foto personali, quelle delle tombe della famiglia e infine quelle della sorella scomparsa. In un emozionante affresco, Lindokuhle Sobekwa parla di chi siamo e delle nostre origini.
Queste prime tre opere, che convivono e dialogano nella prima stanza, creano un vero proprio ecosistema che fa capire al visitatore come, anche se provenienti da città molto diverse, questi artisti abbiano un dialogo molto forte tra loro e come le loro opere rimangono impresse sia per contenuto che per tema.

Uno still dal video «The Past is a Foreign Country», 2020, di Gabrielle Garcia Steib. © 2025 Gabrielle Garcia Steib. Courtesy the artist

Saraswati Rai Collection / Nepal Picture Library, «A mass meeting of former kamlaris (women bonded labourers) in Kanchanpur, Nepal», 2010, da «The Public Life of Women: A Feminist Memory Project», 2023. Courtesy Gefont Collection / Nepal Picture Library
In una sala a parte si trova il lavoro «Staging Memories» di Lebohang Kganye (Johannesburg, 1990). Due grandi diorami che ricordano i film di William Kentridge, proiettano il visitatore nel futuro distopico dello scrittore malawiano Muthi Nhlema. Nel suo futuro alternativo, c’è il ritorno del defunto Nelson Mandela dopo che la nazione è stata lacerata dalla xenofobia e da un virus. Muovendosi attraverso le rovine di quella che una volta era una prospera città, fino agli interni intimi delle case sudafricane, questi grandi diorami proiettano le loro ombre sui muri circostanti e parlano di memoria. «Mentre queste immagini registrano la storia, dice l’artista, che è solo una storia immaginata».
La seconda sala ospita tre diversi artisti che arrivano dal Nepal. Agli onori delle cronache in queste ultime settimane per i venti rivoluzionari, il Paese è rappresentato dal collettivo fotografico Nepal Picture Library (Npl). «Diventare pubblici significa essere visti e considerati nella storia», scrivono i membri NayanTara Gurung Kakshapati e Diwas. Con contributi da parte di individui e organizzazioni, Npl è un ampio archivio fotografico digitale nel quale le donne sono protagoniste. Nelle fotografie si vede la loro vita, le faccende quotidiane e l’educazione. Quest’opera, forse un po’ generalista, rispecchia però un’epoca di organizzazione delle donne per la lotta per i loro diritti, rendendoci partecipi di un fermento sociale poco conosciuto ma in questo momento legato all’attualità del Nepal.
L’artista Sheelasha Rajbhandari (1988, cocuratrice nel 2022 del primo padiglione nepalese della Biennale di Venezia) descrive il modo in cui le donne nepalesi resistono nella propria vita quotidiana. «Agony of the New Bed» è una serie di letti in miniatura con piccoli materassi, che presentano ricamate le parole tratte da testimonianze intime di donne nepalesi riguardo le loro esperienze e aspettative matrimoniali. Compromesso, sacrificio, proprietà, patriarcato, sono alcune delle parole presenti sui cuscini di colori sgargianti cuciti con perline colorate. Molto toccante, questo lavoro onora l’operato invisibile di coloro che infrangono silenziosamente i tabù e analizza il peso del matrimonio istituzionalizzato. «Le donne mi hanno insegnato che la resistenza non è sempre rumorosa o pubblica».
Sul muro opposto ci sono undici fotografie di donne realizzate da Gabrielle Goliath (Kimberley, 1983; vive e lavora a Johannesburg). Il senso di queste opere è molto personale per l’artista sudafricana. «Berenice 29-39» raffigura 11 ritratti di donne di colore sedute di fronte a uno sfondo che varia dal lilla al pesca. Queste donne fungono da surrogati e segnano collettivamente l’assenza dell’amica d’infanzia dell’artista, Berenice: un ritratto per ogni anno non vissuto dopo il suo omicidio nel 1991.

Sandra Blow, «Alan Balthazar», 2017, dalla serie «Untitled. 2017-20». © 2025 Sandra Blow

Sabelo Mlangeni, «Faith and Sakhi Moruping, Thembisa Township», 2004, dalla serie «Isivumelwano. 2003-20». © 2025 Sabelo Mlangeni
Gli sguardi delle donne, la loro fissità, comunicano forti emozioni ed ipnotizzano il visitatore. Le donne sembrano esprimere la stessa indecifrabile emozione, fatta di un misto di sfida e compassione. La similitudine delle pose e del colore dello sfondo le accomuna, ma ognuna ha uno sguardo diverso. Ogni sguardo è talmente forte che non si è sicuri di chi stia scrutando dentro l’anima dell’altro, noi o loro. Un giovane visitatore cammina guardando questa serie come per verificare se il loro sguardo lo segue nella stanza. Provo anche io a fare il suo esercizio. Lo sguardo delle donne mi segue e rimane con me a lungo.
L’ultima sala della mostra fa vedere come la fotografia puramente documentale sia sempre molto importante nel panorama americano. Qui si esplorano temi come l’immigrazione, la queerness e le comunità.
«È interessante pensare agli immigrati come documentaristi per natura», dice Gabrielle Garcia Steib (New Orleans, 1994). In questa installazione, l’artista rivede i suoi archivi familiari personali per esplorare le storie politiche, economiche e migratorie interconnesse dell’America Latina e del sud degli Stati Uniti. Un suo video mescola immagini della sua infanzia, i film fatti in casa nei giorni di festa e documenti delle sue città di origine.
L’artista messicana Sandra Blow (1990) esplora il mondo queer al quale appartiene e la sua documentazione della propria comunità appare sotto forma di un una quadreria ottocentesca. Le immagini sono quelle degli amici di sempre con i quali l’artista ha intimità. Ma anche fotografie di bondage, concorsi drag, tatuaggi e rave.
Infine, il fotografo sudafricano Sabelo Mlangeni (1980) esplora il significato della parola «isivumelwano» cioè contratto, accordo o patto. Sono le uniche fotografie in bianco e nero dell’intera mostra e indagano i fattori psicologici e spirituali della connessione, rappresentando spazi collettivi e individui nel pieno della celebrazione di matrimoni e comunioni. Per Mlangeni, queste immagini amplificano «i sistemi in cui viviamo (e contro cui ci opponiamo)».
«New Photography 2025: Linee di Appartenenza» è una mostra che collega diverse città di origine degli artisti attraverso diversi temi come l’ambiente, il femminile e la memoria. In questa mostra le fotografie prendono vita, si staccano dalla classica fotografia a parete, sono video ed installazioni che diventano una testimonianza viva di quello che compone la società di oggi.
Descrivere il panorama fotografico odierno in una sola mostra risulta impossibile, ma qui il visitatore capisce come oggi le riflessioni degli fotografi siano collegate nonostante la loro distanza geografica e come essi siano occupati e preoccupati da argomenti comuni. In questo momento storico segnato da grandi cambiamenti e grandi incertezze, nel quale discutere certe tematiche è diventato quasi un tabù negli Stati Uniti, la presenza di questi temi e di questi artisti sulle pareti di un’istituzione come il MoMA, diventa politicamente importante, perché il museo è ancora uno spazio libero di discussione e condivisione culturale.

Una veduta della mostra «New Photography 2025: Lines of Belonging» al MoMA di New York. Photo: Robert Gerhardt