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Dettaglio dell’arazzo di Marzia Migliora

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Dettaglio dell’arazzo di Marzia Migliora

Al Mao il paesaggio senza confini di Marzia Migliora

Nello scalone monumentale del museo torinese cinque grandi arazzi sono allestiti come pagine di un libro, densi di dettagli e racconti

Olga Gambari

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Pochi artisti riescono a declinare in maniera poetica e visionaria tematiche politiche e sociali come Marzia Migliora. Si immerge nella storia, nei luoghi, nei mari, nelle stratificazioni geologiche, ci nuota osservando con attenzione, e quando si mette al lavoro sembra raccogliere quei frammenti che le sono rimasti impigliati negli occhi, sulla pelle. Frammenti con cui modella narrazioni corali dove si delinea un pensiero, un’immagine critica che riordina la memoria e ne fa opera contemporanea. In questo, mai estranea a un senso di profonda bellezza, che per esprimersi sceglie linguaggi diversi, spesso mescolati nella dimensione installativa. Il disegno e il suono, la performance, il collage, la ceramica.
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L’anno scorso il direttore del Mao di Torino Davide Quadrio l’ha invitata a esplorare le collezioni del museo non esposte. E così Marzia si è immersa di nuovo, nei depositi del Mao, in un viaggio fluido, seguendo l’istinto e il caso, attraversando irregolarmente sezioni e categorie. Ogni pezzo, reperto, manufatto, opera se l’è «annotata» sulla carta, ne ha preso l’impronta con il frottage. Un diario di appunti lungo dieci metri di disegno, una texture che sembra una mappa, dove ci si perde, dove si viaggia attraverso dimensioni e mondi, misure, immagini. Un caleidoscopio che racconta millenni di umanità, senza un ordine lineare apparente ma con una convivenza che ne esprime una visione globale e i rituali, le vicende, le sconfitte e le conquiste. La donna e il lavoro al centro.
La carta è diventata un lunghissimo arazzo prodotto da Giovanni Bonotto, nome storico della tradizione tessile italiana, che da anni insieme a Chiara Casarin collabora con artiste e artisti nel progetto «A Collection», una raccolta di opere d’arte realizzate in forma di arazzi contemporanei mescolando antiche tecniche artigianali e nuove tecnologie.

Nello spazio dello scalone monumentale che porta al primo piano del Mao sono sospesi metri di questa tessitura, cinque arazzi come pagine di un libro, densi di dettagli e racconti, un magma stratificato in bianco e nero dove spesso i bordi non sono conclusi e il racconto, la tessitura sembrano ancora in atto, con la figura di un serpente che sembra tenere il tutto, un uroboro. L’opera, presentata nell’ambito della mostra «Declinazioni contemporanee» (fino al 2 giugno 2024), si intitola «Il rituale del serpente», titolo preso dal libro dello storico dell’arte tedesco Aby Warburg (1866-1929) che descrisse i cerimoniali degli indiani Pueblo osservati nel corso di un viaggio nel Sud-ovest degli Stati Uniti tra il 1895 e il 1896.
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Marzia Migliora, come ha realizzato questo lavoro monumentale?
È un grande disegno a frottage, carta appoggiata sugli oggetti e matita sfregata sopra: quello che c’è sotto risale come un fantasma. Ho realizzato venti rotoli di carta molto leggera a partire da oggetti rituali, tombe, vasi e statue; là dove c’era un rilievo, lo prendevo, moltiplicavo. Ne è venuto fuori una specie di paesaggio dove non c’è più confine, non c’è più culto, non c’è più geografia né periodo storico. Ho voluto infrangere e mescolare tutto quello che di solito è la catalogazione museale. Questi rotoli mi sono subito apparsi come una grande trama e ordito della nostra cultura, tutto va insieme, e così è nata la collaborazione con la «A Collection» di Chiara Casarin e Giovanni Bonotto.

Qual è il racconto?
La storia culturale è stratificata, alcuni simboli e soggetti si riconoscono ancora bene ma in generale tutti i segni diventano altro, si trasformano. Poi c’è un’altra storia, quella dei lavoratori, a me molto cara. Parto dalla seconda rivoluzione industriale, che nasce con l’invenzione del telaio meccanico, e da lì inizio un viaggio nella storia dell’industria tessile, costellata da centinaia di fabbriche andate a fuoco, sempre con moltissime donne dentro: erano quelle più facili da sfruttare perché bisognose di lavoro e alle quali si davano, e danno, meno soldi, che hanno meno diritti riconosciuti. La prima fabbrica che compare nella storia narrata dai miei arazzi è quella della Cottons a New York l’8 marzo 1908: la fabbrica brucia, le donne vanno in strada e chiedono il diritto di voto, da cui l’origine della festa delle donne dell’8 marzo. L’ultima, invece, quella crollata vicino a Dacca in Bagladesh nel 2013, la Rena Plaza, di nuovo una strage di donne: anche in questo caso, migliaia di lavoratori vanno in strada e chiedono il diritto a vivere, perché non si può morire per la moda. In mezzo ho inserito cartelli di protesta di varia origine, da quelli femministi a quelli dei coltivatori di cotone in America. L’unico soggetto umano che compare in tutto il lavoro è una donna a cavallo, che riprende una scultura cinese.
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C’è un serpente che sembra legare tutto, come una metafora, anche visiva.
Ho unito tutti gli elementi con questo serpente che tocca, attraversa il lavoro e si trasforma, diventando con tre teste e tre code. Prendo in prestito il metodo di Aby Warburg, cioè mettere sullo stesso piano immagini completamente diverse che provengono da contesti diversi. Così spacco completamente la catalogazione classificatoria del museo, ossia autore/materiale/epoca, per unire le vicende attraverso la storia della tessitura e ciò che è successo a partire dal telaio meccanico a oggi. Gli arazzi sono a vista anche sul retro, nulla viene nascosto dei risultati delle 800 ore impiegate per realizzarlo, un lavoro di tessitura inestimabile da un punto di vista produttivo. Il tessuto è leggerissimo, in fibre di carta bianca e nera tagliate a striscioline: è una riproduzione speculare e precisa del mio disegno, sviluppata attraverso una traduzione in linee vettoriali di ogni mio segno, ogni riga e riempimento, comprese le parti nelle quali ho applicato frammenti fotografici come un collage.

Quando verrà esposto il disegno originale?
Lo presentiamo il 19 dicembre al Tai Kwun Contemporary di Hong Kong, esposto in una teca lunga 10 metri, nella mostra «Green Snake: women-centered ecologies».

Olga Gambari, 14 novembre 2023 | © Riproduzione riservata

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