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Jean-Étienne Liotard, «Ritratto di Maria Adelaide di Francia vestita alla turca», 1753, Firenze, Gallerie degli Uffizi

© Gallerie degli Uffizi

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Jean-Étienne Liotard, «Ritratto di Maria Adelaide di Francia vestita alla turca», 1753, Firenze, Gallerie degli Uffizi

© Gallerie degli Uffizi

Agli Uffizi non c’è solo il Rinascimento toscano

Circa 150 opere provenienti perlopiù dai depositi illustrano la reale identità del museo italiano più visitato: una vocazione universale che spazia su tutta l’arte europea

Non solo Rinascimento. «Firenze e l’Europa. Arti del Settecento agli Uffizi» è la mostra che, fino al 28 novembre, svela, attraverso un percorso di circa 150 opere perlopiù custodite nei depositi, la reale identità delle Gallerie degli Uffizi, ovvero di quel secolo in cui l’istituzione si formò come museo moderno. Simone Verde, direttore delle Gallerie, e Alessandra Griffo, responsabile di quel settore delle collezioni, hanno intrecciato i loro saperi: la profonda conoscenza di Griffo delle opere conservate nel museo e la visione di storia globale di Verde. 

Direttore Verde, quando ha assunto la direzione del museo ha specificato di desiderare che gli Uffizi non fossero solo il primo museo d’Italia per numero di visitatori, ma anche per studi scientifici: lo scorso aprile si è infatti tenuto il convegno «Tra Storia e sistema. Gli Uffizi di Luigi Lanzi e Giuseppe Pelli Bencivenni al cimento dei Lumi». Qual è l’intento di questa mostra? 
Prima di tutto dovevamo uscire dall’immagine degli Uffizi legata al solo Rinascimento, deformazione incorsa solo in tempi relativamente recenti. Tradizionalmente, e se non altro per accessioni legate a dinamiche dinastiche, le collezioni granducali spaziavano su tutta l’arte europea senza contare che gli Uffizi moderni, ovvero quelli a vocazione pubblica che conosciamo oggi, vennero voluti da Luigi Lanzi come il museo enciclopedico delle scuole italiane di pittura. Non solo Rinascimento, dunque né solo Toscana. Una vocazione a suo modo universale cui dobbiamo tenerci fedeli se vogliamo svolgere il ruolo specifico cui siamo chiamati nell’ambito del sistema nazionale dei musei. Per colmare alcune delle lacune che ci impediscono di proseguire su questa linea, nel 2024 abbiamo acquisito la «Strega» di Salvator Rosa (esposta a gennaio 2025), il «Matrimonio mistico di santa Caterina de’ Ricci» di Pierre Subleyras, di cui si può seguire in diretta, inserito nel percorso della mostra, il restauro in corso da parte di Lucia Biondi. E se tutto andrà bene riusciremo a portare tra poco nel museo un altro capolavoro settecentesco.

La mostra è articolata secondo un percorso cronologico, dagli ultimi decenni del Seicento, ma anche tematico, a tradurre il passaggio tra Ancien Régime e nuovo mondo. Come? 
S.V. Sull’intreccio di questi due criteri ho molto insistito e lavorato perché venisse descritta tutta la complessità di un secolo come il XVIII che di tempi spirituali della storia ne racchiude almeno tre: quello del feudalesimo agonizzante; quello moderno delle forme rocaille, prima, e di un Neoclassicismo di stampo già borghese; infine, di un Romanticismo la cui gestazione avviene a metà secolo e preannuncia la Rivoluzione. Ciò detto, la fortuna di poter narrare un tempo così articolato a partire da un’unica collezione, vasta come può esserlo solo quella degli Uffizi, non solo ci ha permesso di tessere tra loro tutti i fili tematici necessari, ma ci ha fatto riscoprire altri intrecci, innanzitutto tra artisti, corte e committenti. Nel caso degli ultimi Medici ci si è squadernato davanti un album della storia per cui, nella piccola «cappellina medicea» che abbiamo voluto realizzare in mostra, accanto al Carlo Maratta di un ritrattino di Cosimo III come canonico di San Giovanni in Laterano, troviamo Anton Domenico Gabbiani, che proprio ispirandosi a Maratta seguì la sua formazione a Roma presso l’Accademia fiorentina della capitale, voluta proprio dal granduca sotto gli auspici di Ercole Ferrata e di Ciro Ferri, quest’ultimo allievo di Pietro da Cortona con cui aveva sempre per i Medici affrescato qualche decennio prima le volte di Palazzo Pitti. E poi, nella sala successiva, di fronte alle «Allegorie delle stagioni» di Massimiliano Soldani Benzi, celebre a Firenze per aver realizzato una medaglia di Luigi XIV, troviamo il «Ritratto di Gian Gastone» di Franz Ferdinand Richter che non è nient’altro che una versione tardiva, 36 anni dopo, del celebre ritratto del Re Sole dipinto da Rigaud. Canto del cigno, quest’opera monumentale del 1737 venne finita dopo la morte del granduca ed emana ancora oggi uno spirito apocalittico che trovò perfetta corrispondenza, proprio in quell’anno, nella fine della dinastia. 

Alessandra Griffo, qualche altra opera emblematica di questa stagione? 
Il grado di sfarzo tardo barocco è tradotto dalle creazioni dell’Opificio Granducale, come lo Stipo dell’Elettore Palatino, capolavoro di architettura nella sua concezione unitaria su disegno di Foggini, dove le pietre dure sono presenti nelle tre tipologie, a commesso, a rilievo e scolpite. Il «Ritratto di Gian Gastone» di Richter ha invece colori sulfurei, quasi apocalittici, già un presagio. Gian Gastone muore senza discendenza ma suo padre Cosimo III aveva elaborato una sorta di piano strategico per tramandare la dinastia in linea femminile con Anna Maria Luisa, la quale stipulerà con i Lorena il «Patto di famiglia», che lega le opere della collezione medicea alla città di Firenze (l’antenato della notifica, in un certo senso). Ma tra le opere della sala ci sono anche scene di popolo di Giovan Battista Crespi: la «Strage degli Innocenti» e la «Fiera di Poggio a Cajano» e in quest’ultima troviamo quel tono «caricato e giocoso», per dirla con Mina Gregori, proprio dell’arte fiorentina, con riferimenti alla tradizione letteraria burlesca, da secoli apprezzata a corte. Nella «cappella» dedicata a Cosimo III, oltre alle opere di Ricci, di Gabbiani, di Solimena, segnalo i piccoli dipinti di Giovanni Cinqui, da una serie di 120 per la villa medicea dell’Ambrogiana.

I granduchi lorenesi, fin da Ferdinando III, fratello minore dell’imperatore asburgico, sono grandi riformatori (Pietro Leopoldo nel 1790 abolirà in Toscana la pena di morte), despoti illuminati, ma, rispetto ai Medici, non così grandi collezionisti.
S.V. I Lorena ereditano un granducato fortemente indebitato, quindi aggiunsero poco alle collezioni, ma fecero numerosi scambi di opere. Segnarono, però, soprattutto un mutamento di prospettiva per cui se l’arte era servita a esaltare la natura divina del sovrano, da cui il riferimento ai modelli romani, incarnati in un primo scorcio di secolo proprio dalla lezione recente di Carlo Maratta, ora sarebbe valsa più per sottolineare le qualità riformatrici del potere, sottolineate anche dalla dimensione ormai dei commerci e, dunque, dei riferimenti culturali.

Proprio accanto alla sala dell’esotismo globale con, per esempio, le «Scene dei Turchi» di Giovan Antonio Guardi, ma anche carte e manifatture cinesi per l’esportazione, c’è però una sezione con dipinti di interesse molto locale, con costumi regionali. Perché? 
A.G. Abbiamo voluto mostrare come i due aspetti coesistano quali facce di una stessa medaglia, perché la scoperta di ciò che è tipico è una sorta di etnografia non ancora scientifica, ma che indaga le caratteristiche della italianità.

Anche il rapporto con l’antico muta: penso alla sala con la grande tela di Giambattista Tiepolo, «Erezione della statua di un imperatore romano», un sarcofago e i ritratti di arte romana accanto ai busti dei sovrani lorenesi  «all’antica».
S.V. Si tratta di un antico non incardinato nel ruolo provvidenziale della Chiesa, ma preso a modello etico e razionale, archetipo di buongoverno. Anche la figura dell’artista si carica di altri valori per cui, campione del mondo borghese nascente, è sempre più individuo geniale, libero e creativo. Da qui l’attenzione inedita per i processi dell’elaborazione e della creazione artistica, sottolineata in mostra dalla sezione sui bozzetti.  

Una veduta della mostra «Firenze e l’Europa. Arti del Settecento agli Uffizi» alle Gallerie degli Uffizi di Firenze. © Gallerie degli Uffizi

Come la società stesse rapidamente mutando si coglie bene nella ritrattistica.
A.G. Abbiamo contrapposto i ritratti di Adelaide ed Enrichetta di Francia nelle vesti l’una di Diana e l’altra di Flora, opera di Jean-Marc Nattier, con quelli di donne di personalità e piglio moderno, che esprimono il loro diritto a non essere belle: l’«Autoritratto» della pittrice Annamaria Bacherini Piattoli e quello di Angelica Kauffman. Oppure il «Ritratto della contessa d’Albany» di François Xavier Fabre e quello di María Teresa de Borbón y Vallabriga, moglie morganatica di un fratello del re di Spagna, nel bozzetto di Francisco Goya, in uno stile alla Velázquez. Ma anche Elisabeth Vigée Le Brun che si autoritrae, con tocchi memori di Van Dyck, a Firenze nel 1790: nulla trapela in quel ritratto della tempestiva fuga dalla Francia con la figlia piccola. Curiosa è la tela, acquistata di recente, dove sono Ferdinando III, con un cappellino dalla piuma rosa in mano, e la sorellina: bambini con le gote arrossate forse dopo i giochi in giardino, ritratti da Anton Raphael Mengs per Carlo III di Spagna, che aveva richiesto un’effigie dei nipoti. Ma il ritratto è incompiuto perché Maria Teresa, la nonna imperatrice, non lo trovava degno (il dipinto a Madrid li vedrà infatti in armatura). 

Una sala è dedicata alla definizione, con l’abate Lanzi, del museo moderno: troviamo quindi opere di Longhi, Gandolfi, Trevisani, Ferretti, Mura, Tiepolo, Magnasco ecc. 
S.V. Con La storia pittorica dell’Italia di Luigi Lanzi si definisce un’arte italiana a suo modo enciclopedica dove parlano, in perfetta complementarità, le varie scuole pittoriche regionali che costituirono l’anima degli Uffizi. Ma il museo di Lanzi non fu solo questo. Ebbe anche una matrice per così dire romantica che prefigurò il secolo a venire. Lanzi ebbe un’attenzione per il Medioevo e la cultura estetica cristiana senza precedenti, in emulazione con quanto si andava facendo a Roma. Sono gli anni della nascita del Museo Cristiano dei Musei Vaticani, d’altronde, accompagnato da quella riscoperta dei primitivi stimolata dalle ricerche di Seroux d’Agincourt che, anch’essa illustrata da una sezione della mostra, costituì il presupposto per la rivendicazione delle identità nazionali dei popoli che, Herder contro Kant, tanto avrebbe contribuito all’Ottocento nazionalista.

Non mancano, di questo fervido clima, testimonianze documentarie.
A.G. Una sala riunisce disegni, stampe, taccuini, opere di Lanzi, di Pelli Bencivenni ma anche ritratti di figure legate agli Uffizi. In quello di Fra Giovanni de’ Servi, opera di Zoffany, il ritrattato ci mostra la parte attiva della chiave, detta anche «ingegno», mentre con un dito dell’altra mano si tocca la tempia, sede dell’intelletto, a indicare come questo sia l’unica chiave per comprendere il mondo.  

E il Gabinetto erotico? 
A.G. Abbiamo fatto una ricostruzione immaginaria di quello che, sul finire del Settecento, il marchese de Sade descrive nel suo romanzo Juliette, seguendo quindi la sua lettura: i marmi dell’amore contro natura (l’Ermafrodito), dell’amore incestuoso (il gruppo di Caligola e Drusilla) e dell’amore virile (il gigantesco fallo leonino). 

Ma la fede nella ragione va declinando e si apre il terzo capitolo della mostra.
S.V. L’infinità della ragione illuminista, già a metà del secolo, è chiamata a confrontarsi non solo con l’irriducibile varietà del mondo ma anche con la violenza della sua pretesa livellatrice. Il concetto che più riassumerà questa nuova inquietudine sarà non a caso quello di Sublime, tentativo di codificare lo sgomento che scaturisce dal confronto con l’ignoto, il soverchiante e l’infinito, rappresentati in mostra da alcuni dipinti di Claude Joseph Vernet e di Michael Wutky.

La mostra si conclude con la sala dedicata al fenomeno del turismo. 
S.V. Nella sala circolare abbiamo allestito le pareti con le vedute di quattro città emblematiche del Grand Tour (tra cui vedute di Canaletto o la visione del Vesuvio in eruzione di Thomas Patch), quasi come fossero calamite souvenir attaccate a un frigorifero. Ciò per dare conto sia della serialità di queste produzioni sia della loro pervicacia nel formare il nostro immaginario di europei. E al centro della sala sono altri manufatti souvenir a tema di quei viaggi, antenati degli odierni gadget.

Pierre Subleyras, «Matrimonio mistico di Santa Caterina de’ Ricci», 1746. © Gallerie degli Uffizi

Laura Lombardi, 27 luglio 2025 | © Riproduzione riservata

Agli Uffizi non c’è solo il Rinascimento toscano | Laura Lombardi

Agli Uffizi non c’è solo il Rinascimento toscano | Laura Lombardi