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Frutto della collaborazione del Comune di Milano con i Musées d’Orsay et de l’Orangerie, dove si è chiusa il 13 luglio scorso, la mostra «Adolfo Wildt (1868-1931). L’ultimo simbolista» (catalogo Skira), giunge alla Gam-Galleria d’Arte Moderna dal 27 novembre al 14 febbraio, rinnovata da alcuni «innesti» e arricchita da itinerari milanesi. I curatori, Fernando Mazzocca, Beatrice Avanzi e Ophélie Ferlier (entrambe del Musée d’Orsay), qui con la direzione di Paola Zatti, responsabile della Gam, hanno selezionato 55 sculture di gesso, marmo (nella foto, «Filo d’oro») e bronzo, per evidenziare l’ossessione dell’artista (che, a dispetto del cognome, era milanese) per l’indagine sulla resa plastica delle materie. Sono esposti anche alcuni disegni e sei opere di confronto, dalla «Vestale» di Canova (della Gam), fonte evidente di «Atte» (o «La vedova», 1892), l’opera che gli guadagnò l’attenzione del mecenate Franz Rose, a tre lavori di Lucio Fontana e due di Fausto Melotti, suoi allievi a Brera. Sei le sezioni: quella iniziale (1885-1906) presenta le prime prove ancora naturalistiche e l’approdo ad «Atte» e ai contestati «Beventi» (1906), poi distrutti. Quelle stroncature lo gettarono in una depressione da cui uscì solo nel 1912, con «Trilogia» (oggi nel parco della Gam), con cui avviò la ricerca su chiaroscuri e deformazioni espressionistiche. C’è poi il tema, per lui centrale, della «Famiglia mistica» (1915-18), con cui inaugura modi più ascetici e spirituali, seguito dalla sezione della riflessione sulle potenzialità del marmo (1918-26), che lo conduce a forme sempre più scarnite, disseccate. Tra il 1922 e il 1926, intanto, aderendo a «Novecento italiano» di Margherita Sarfatti, si dedicava a monumenti e ritratti, seppure ideali. Chiudono il percorso gli amici e gli allievi. La mostra, che rientra nell’accordo triennale con Ubs, suggerisce poi un itinerario in città, tra il Cimitero monumentale, l’Università Cattolica (il grandioso «Sant’Ambrogio») e due palazzi vicinissimi alla Gam, in via Serbelloni 10, dove Wildt modellò il citofono (uno dei più antichi d’Italia) come l’orecchio del suo «Prigione» (1915), e in via Cappuccini 8, con la «Vittoria» nell’atrio.
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