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Adji Dieye, «Culture Lost and Learned by Heart: Butterfly», 2021, veduta dell’installazione presso C/O Berlin

© C/O Berlin Stiftung. Foto David von Becker

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Adji Dieye, «Culture Lost and Learned by Heart: Butterfly», 2021, veduta dell’installazione presso C/O Berlin

© C/O Berlin Stiftung. Foto David von Becker

Adji Dieye: «La memoria è fragile come una farfalla»

L’artista vincitrice del secondo Collective Prize del Castello di Rivoli racconta il processo creativo dietro l’opera e la sua trasformazione nel realizzarla

Carola Allemandi

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Adji Dieye (Milano,1991) è un’artista multidisciplinare interessata al ruolo della narrazione storica nazionale e della sua creazione da parte delle istituzioni. Con «Culture Lost and Learned by Heart: Butterfly» (2021) ha recentemente vinto la seconda edizione del Collective Prize, istituito dall’associazione di collezionisti Collective: l’opera viene donata al Castello di Rivoli e l’artista riceve un contributo di 20mila euro. Il lavoro di Dieye sarà visibile al pubblico dal prossimo 25 settembre al Castello di Rivoli, in concomitanza con il programma «Inserzioni», curato dal direttore Francesco Manacorda. Abbiamo incontrato l’artista.
 

Per realizzare la sua opera ha attinto dall’Archivio Nazionale Iconografico del Senegal e dal suo personale. Jacques Derrida intendeva l’archivio come una realtà complessa, dominata da pulsioni contrastanti.
Sì, Derrida è un riferimento importante nel mio lavoro. Le sue riflessioni sull’archivio mi hanno portata a considerare il contenuto di un’istituzione come chiave per leggerne la struttura e le intenzioni, interrogandomi sui modi in cui si costruisce una narrazione nazionale. Questo interesse è nato concretamente quando mi sono imbattuta negli Archivi Nazionali del Senegal, che sono diventati il mio primo vero spazio di apprendimento sull’archivio. Durante questa ricerca, la direttrice dell’Archivio mi ha indirizzata verso il dipartimento iconografico: un piccolo armadietto con circa cinquemila immagini, che ho fotografato quasi per intero in tre mesi. Ho scelto di tralasciare la sezione delle cartoline postali, dove la violenza coloniale francese si manifesta in modo evidente, concentrandomi invece sulle immagini che documentano la costruzione del paese, un cantiere aperto che ancora oggi ci accompagna. Parallelamente, dal 2019, ho iniziato a costruire anche un mio archivio personale fotografico, spinta da un’attenzione crescente verso l’architettura e i cantieri urbani di Dakar, come spazi in cui si inscrive la trasformazione materiale e simbolica della città.

Il titolo dell’opera, rifacendosi alla farfalla, sembra contenere una dichiarazione. La memoria, per quanto strutturata dentro un’impalcatura, resta una creatura fragile.
Sicuramente. Le mie installazioni, per quanto appaiano monumentali, si riducono a materiali fragili: un rotolo di seta, una lastra di metallo spessa appena un centimetro. Stampo frammenti di immagini d’archivio su queste strisce leggere, ordinandole in una sequenza lineare che richiama le narrazioni ufficiali della storia, spesso ridotte a una sola voce. La scelta della seta non è casuale: è una superficie delicata ma carica di significati, specie se pensiamo che il Senegal è stato tra i primi paesi dell’Africa occidentale a partecipare alla Belt and Road Initiative. Alcuni dei suoi simboli culturali più visibili oggi, il Teatro Nazionale o il Museo delle Civiltà Nere, sono doni della Cina. Questo intreccio tra estetica, ideologia e infrastruttura mi interessa profondamente. Le frizioni e i paradossi che accompagnano la costruzione di un’identità nazionale vengono spesso messi da parte per creare un messaggio chiaro e condiviso. È proprio da queste omissioni che parte il mio lavoro: narrazioni frammentate e stratificate, che scelgo di rendere accessibili solo attraverso l’opera, senza restituirle a una spiegazione discorsiva univoca.

La genesi dell’opera sembra aver richiesto un lungo processo di ricerca e di realizzazione.
Soprattutto dal punto di vista della realizzazione fisica. Stampo in serigrafia nel mio studio a Milano e per «Butterfly» ho utilizzato ottanta metri di seta: è stato un mese di lavoro ininterrotto.

In un’epoca in cui le immagini si producono e vengono fruite sempre più rapidamente, il suo processo inverte questa tendenza, diventando parte integrante dell’opera.
Esiste lo spazio di creazione dell’opera, e c’è la mia trasformazione nel processo. Dopo una prima fase di ricerca immobile, entro in una seconda fase in cui mi trasformo letteralmente in una stampante. In questa fase è necessario che il pensiero si blocchi per far lavorare soltanto il corpo.

Disponendo in sequenza le immagini e installando la seta dentro l’impalcatura di metallo, il suo lavoro sposta l’immagine da un ruolo di centralità a uno compositivo.
C’è una forte componente di sperimentazione nel mio lavoro, sia nella forma, che nei contenuti. Un riferimento importante è il principio architettonico del Parallelismo Asimmetrico di Léopold Sédar Senghor (primo presidente del Senegal), che proponeva un’estetica dell’indipendenza basata su tensioni formali e armonie irregolari. Alterno la ricerca a un processo intuitivo, in cui l’immagine, archivistica o costruita, mi guida nel comporre narrazioni visive.

Lei utilizza in vario modo tecniche differenti come il video, la fotografia, l’installazione. Come progetta i suoi lavori? A cosa sta lavorando adesso?
Il mio approccio resta fortemente legato alla fotografia: penso sempre in termini di progetto e faccio fatica a concepire opere slegate da una ricerca più ampia. Quando ho un’intuizione, immagino subito come potrebbe prendere forma nello spazio, anche se spesso i lavori evolvono nel tempo. «Aphasia» (2023), ad esempio, è nato come installazione video, ma sto pensando di ampliarlo in una dimensione fotografica e installativa. In questo momento sto lavorando a un progetto per la Bienal de Art Paiz  in Guatemala che si terrà a novembre, curata da Eugenio Viola, e ad altri progetti museali previsti per il 2026.

 

 

Adji Dieye. Foto Emmanuel Yoro

Carola Allemandi, 14 agosto 2025 | © Riproduzione riservata

Adji Dieye: «La memoria è fragile come una farfalla» | Carola Allemandi

Adji Dieye: «La memoria è fragile come una farfalla» | Carola Allemandi