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Cristina Casero
Leggi i suoi articoliComplessa e affascinante, pur nella sua apparente semplicità. Così definirei la pittura di Antonio Calderara (1903-78), autore da tempo conosciuto e amato all’estero e meno noto nel nostro Paese, soprattutto al grande pubblico, nonostante da anni la Fondazione intitolata all’artista e alla moglie Carmela promuova con numerose iniziative la sua valorizzazione. La ricca antologica (48 opere) «Antonio Calderara: riti di passaggio. Dalla figurazione all’arte concreta», allestita fino al 26 aprile 2026 negli spazi della Fondazione Marcello Morandini a Varese, curata da Paola Bacuzzi ed Eraldo Misserini, della Fondazione, insieme a Marco Meneguzzo, è uno dei frutti di questo impegno e rappresenta un’ottima occasione per conoscere, o approfondire, il percorso dell’artista, che necessita di essere apprezzato nel suo complesso. Si tratta, infatti, di un percorso la cui coerenza è evidente a un primo sguardo, poiché quella figurazione, che caratterizza i modi di Calderara sino alla metà degli anni Cinquanta, ben definita ma sempre essenziale e stilizzata, ordinata in forme latamente geometriche, sembra poi sciogliersi spontaneamente, quasi senza soluzione di continuità, in una rappresentazione astratta, minimale, asciutta ma sempre intensamente poetica e permeata da quello stesso intrigante luminismo, che sembra emanare dalla materia cromatica stessa.
Fin dalle prime opere, licenziate negli anni Venti, il fare di Calderara rimanda alla sensibilità dei cosiddetti primitivi, Piero Della Francesca in primis, e ai modi di certa coeva pittura, di marca metafisica, metastorica, improntata a suggestioni di Realismo Magico e attenta ai cosiddetti valori plastici, cui egli guarda con grande attenzione. E questi riferimenti restano centrali pure per il Calderara più maturo, che già ha affrontato la svolta astratta: infatti nel 1959, nel catalogo di una mostra alla galleria Il Grattacielo di Legnano, Calderara nel dichiarare le sue preferenze in campo pittorico cita Piero della Francesca, appunto, con Carrà, Mondrian, Modigliani, Morandi e Guidi, pittore che molto amava. Calderara, dunque, appare totalmente disinteressato alla dialettica tra figurazione e astrazione: il suo interesse è da sempre altrove, nella ricerca di quella luce assoluta e metafisica che illumina i suoi dipinti. Egli lo spiega, quando scrive nella sua autobiografia: «Ricordo mentalmente tutte le mie pitture. E con soddisfazione posso dire che la mia pittura di oggi è anche la mia pittura di ieri, posso dirlo nel senso che, nel suo essere, la mia pittura non ha cambiato niente. Essa è conseguente, legata da un filo conduttore che si chiama luce. La mia pittura ha origine nel mio bisogno di luce, la luce che, inconsapevole della sua importanza, è timida evidenza delle mie prime pitture, la luce che nel tempo si è man mano chiarita a me stesso e a sé stessa, fino a diventare l’unica cosciente e responsabile protagonista della mia pittura».
Così Calderara disegna un percorso assolutamente personale, giungendo all’astrazione «in ritardo» rispetto ai suoi coetanei che hanno abbracciato, con intenti e motivazioni completamente diversi, questo linguaggio in Italia, ma in linea con quella tendenza, internazionale, di riduzione del dipingere al grado zero, ai suoi elementi primari ed essenziali, che nel caso di Calderara è appunto la luce e per altri protagonisti di questa congiuntura possono essere altri. La sua raccolta di opere, conservata negli spazi della Fondazione a Vacciago di Ameno (No), è plastica testimonianza dell’apertura di Calderara, della sua capacità di procedere con le sue intenzionalità pur prestando attenzione al contesto in cui opera e agli artisti che come lui mirano a comprendere l’essenza dell’arte. Si tratta, infatti, di un nucleo di più di 300 opere di diversi maestri (tra cui, accanto a Fontana, Klein e Manzoni, Albers, i protagonisti del Concretismo zurighese, del Gruppo T e del Gruppo Zero, per citarne solo alcuni) che mostrano come la personalità di Calderara fosse coerente e ben definita, ma capace di andare oltre ogni questione meramente linguistica per misurarsi sempre, invece, col senso stesso del dipingere.
Antonio Calderara, «18 variazioni cromatiche», 1969-71