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Francesco Sala
Leggi i suoi articoliAnche se nessuno le usa più, fuori dal Goldsmith Centre for Contemporary Art di Londra c’è una cabina telefonica e sulla porta della cabina hanno attaccato un manifesto in formato A4. Dallo sfondo giallo si stacca una serie rosa shocking di silhouette di Karl Marx, una griglia di faccine tutte uguali, la barba e i capelli lunghi del suo ritratto più noto, e un messaggio invita alla Birbeck University, di sabato, per un seminario sul comunismo.
Trenta metri più avanti da quella cabina c’è «Life Before Automation», la più grande personale di Lawrence Lek (Francoforte, 1982, vive a Londra) mai allestita in uno spazio pubblico in Gran Bretagna (fino al 14 dicembre). E in mostra c’è la trilogia video dedicata al Sinofuturimo. Un lavoro monumentale (nella sua totalità supera le tre ore di durata) che rivisita il passato, articola il presente e anticipa il futuro: plausibile e reale si sciolgono l’uno nell’altro, il dato storico diventa fiction e la fiction si finge cronaca, la timeline scorre impazzita dalla Prima Guerra dell’Oppio alle Olimpiadi degli e-sport, dal 1839 al 2065.
La mitopoiesi di Lek è analisi politica e critica sociale, studia la crescita tecnologica del colosso cinese, l’impatto della digitalizzazione e soprattutto dell’IA sui processi produttivi, sulla cultura, sulla filosofia di un popolo. È proprio il primo capitolo della saga, «Sinofuturism (1839-2046 AD)», a dettare la linea dell’intero lavoro: esposto in una stanza che ricrea volutamente la freddezza delle sale d’attesa delle grandi aziende, il video più tradizionale della produzione di Lek (qui è minimo l’impatto di manipolazioni digitali) elabora i punti fondamentali di quella che suona come una filosofia inconscia. Le sette parole d’ordine su cui si basa il Sinofuturismo sembrano volere aggiornare i paradossi di Orwell: là dove a «la pace è guerra», «la libertà è schiavitù» e «l’ignoranza è forza» si sostituiscono i principi della Computazione, della Replica, del Gioco, dello Studio, della Dipendenza, del Lavoro e della Scommessa. E sullo schermo si alternano immagini di centri direzionali e carte da gioco e scacchiere e il panno verde di un casinò.
La discesa nel futuribile compie un passo ulteriore con «NOX», video in cui l’umano è superato ed è il non-umano a farsi carico di tutte le nostre fragilità. Seguiamo allora Enigma-76, vettura dotata di intelligenza e coscienza, una specie di nipotina della Kitt che aiutava David Hasselhoff nel telefilm «Supercar», nel suo processo di riabilitazione dopo un burnout, tra sessioni di ippoterapia e lunghe scorrazzate per strade suburbane di metropoli deserte, dipinte nelle tinte che Denis Villeneuve ha scelto per il suo «Blade Runner 2049».
Città vuote, strade vuote, case vuote, stanze vuote. Ci siamo solo noi nei corridoi del Nøtel, ambiente digitale in cui Lek invita a perdersi, vagando armati di controller per Xbox. Un albergo futuribile in continua evoluzione (la versione esposta a Londra è quella recentemente presentata a Shangai, un’espansione rispetto all’originale), dove si compie perfettamente il processo di annullamento delle individualità puntualizzato dal Sinofuturismo. Ruotiamo i thumbstick per salire e scendere scale, superare porte e androni, collezioniamo piccoli cuori rossi che prolungano la nostra esperienza prima del fatidico game over: non abbiamo istruzioni, non abbiamo un piano, ma finiamo molto presto col chiederci dove stiamo andando. Andiamo e basta, scivoliamo sul marmo lucidissimo di un albergo che non c’è. Non sappiamo da quanto tempo siamo qui. E forse non siamo nemmeno del tutto qui.
Una veduta della mostra di Lawrence Lek, «Life Before Automation» al Goldsmiths Centre for Contemporary Art. Courtesy Goldsmiths CCA. Photo: Rob Harris
Una veduta della mostra di Lawrence Lek, «Life Before Automation» al Goldsmiths Centre for Contemporary Art. Courtesy Goldsmiths CCA. Photo: Rob Harris