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Roberta Bosco
Leggi i suoi articoliUn murale di Kawira Mwirichia che rende omaggio agli attivisti queer di tutto il mondo con i tessuti kanga, caratteristici del Kenia, dove l’omosessualità è illegale così come in più di due terzi dei Paesi africani, apre la grande mostra che il Museo d’Arte Contemporanea di Barcellona (Macba) dedica al panafricanismo. «Mettere in orbita un pianeta nero. L’arte e la cultura della Panafrica», fino al 6 aprile presenta più di 500 pezzi, 350 opere e circa 200 documenti, di un centinaio di artisti e intellettuali, realizzati in Africa, Europa, Nord America e Sud America, dal 1920 ad oggi, con la volontà di rifiutare l’immagine uniforme e riduttiva che è stata data al panafricanismo, per presentarlo come un movimento polifonico globale.
«Nonostante il gran numero di opere e la loro diversità, la mostra non intende offrire una storia completa ed esaustiva del panafricanismo, ma piuttosto sviluppare tematiche ed episodi specifici per rendere visibili voci e narrazioni spesso messe a tacere», ha spiegato Elvira Dyangani Ose, direttrice del Macba e cocuratrice insieme alla politologa Adom Getachew e ad Antawan I. Byrd e Matthew S. Witkovsky entrambi in forze all’Art Institute di Chicago. «Sebbene il panafricanismo è stato studiato in ambito poetico, letterario e politico, non è mai stato esaminato da una prospettiva estetica e questa mostra oltre a mettere in luce la magnificenza e il potenziale vitale ed estetico delle espressioni creative, presenta storie di resistenza e riconoscimento vissute dalle comunità afroamericane sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo», continua Dyangani che ha suddiviso il percorso espositivo in 9 sezioni.
I curatori concordano nell’affermare che si tratta della prima grande rassegna internazionale che analizza le manifestazioni culturali del panafricanismo a 360 gradi. In mostra pittura, scultura, fotografia, video e installazioni in dialogo con oggetti di arte popolare, libri, manifesti, discorsi politici e musica, che mettono in discussione le convenzioni del tempo lineare, del progresso storico, dell’invenzione dell’Africa, della biblioteca coloniale e della sovranità nazionale.
La mostra, che prima di Barcellona è stata all’Art Institute di Chicago e poi andrà al Barbican Centre di Londra a giugno 2026, per finire nella primavera 2027 al Kanal Centre Pompidou di Bruxelles, presenta un allestimento diverso e contestualizzato in ognuna delle sedi. «È stata una collaborazione ma anche un confronto e non abbiamo esitato a scontrarci quando è stato necessario» assicura il pool di curatori. In questa sede naturalmente Barcellona ha un peso significativo ed è considerata «un contesto chiave per comprendere i legami tra antifascismo, anticolonialismo e panafricanismo». «Negli anni ’30 la Catalogna fu l’epicentro dei movimenti operai e repubblicani che ispirarono la solidarietà internazionale di intellettuali e attivisti neri come il poeta e corrispondente del Globe Magazine, Langston Hughes o C.L.R. James e Paul Robeson, che vedevano nella Guerra Civile Spagnola un’estensione della lotta antifascista e antirazzista globale», assicura Elvira Dyangani. Un altro punto forte dell’allestimento barcellonese è l’inclusione di nuove fonti documentarie, come la ricerca di Tania Safura Adam, «Orogenesi Panafricana», che approfondisce il legame tra il panafricanismo e la storia contemporanea della Spagna e della Catalogna, senza trascurare la presenza di attivisti neri nelle brigate repubblicane della Barcellona operaia nel ’900 e durante la Guerra Civile. La relazione tra Africa e Catalogna si plasma anche nella vergine nera imprigionata di Theaster Gates, che ricorda la Madonna di Montserrat.
Anche se l’approccio curatoriale non risulta così innovativo e assolutamente inedito come promesso, ci sono opere davvero notevoli, iniziando da quelle legate alle bandiere senza territorio, come «African American Flag» di David Hammons e «Union Black. Indoor version» di Chris Ofili, che hanno ibridato la bandiera panafricana con quelle dei rispettivi paesi, Stati Uniti e Regno Unito, i video di Larry Achiampong e dell’artista belga Edith Dekyndt, che mostra una bandiera fatta di capelli scuri lacerata dal vento e la performance poetica e rivendicativa di Precious Okoyomon che parla dello sfruttamento interdipendente degli esseri umani e della natura.
La mostra si chiude con due installazioni di gran impatto visivo «Murderers! Murderers!» di Kader Attia e «Invisible Presence: Bling Memories» di Ebony Patterson formata da 50 sculture a forma di bara ornate con abbondanti decorazioni che, secondo l’artista, «rappresentano una delle più potenti affermazioni di individualità e sembrano esclamare: Potresti non avermi notato quando ero vivo, ma mi vedrai quando non ci sarò più». «Il panafricanismo è la risposta all’idea dell’Africa come invenzione occidentale, come presunto spazio deserto e senza storia», conclude Dyangani.
Nicholas Hlobo, «Ndiyafuna» e Kawira Mwirichia, «Kanga Pride». Photo: Miquel Coll