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Roberta Bosco
Leggi i suoi articoli«La macchina non è il problema, è solo uno specchio. Interroga la macchina, mettila in dubbio, prima che sia lei a decidere per te». Le parole appaiono su un grande schermo come se qualcuno le stesse scrivendo sulla tastiera, ma non è così. Si tratta dell’Intelligenza Artificiale di «Woke Manipulator™» che Daniel G. Andújar alimenta con tutti i contenuti vincolati alla mostra per cui è stata creata. Capace di reagire a qualsiasi lingua e dotata di telecamere e microfoni che registrano tutto ciò che accade nello spazio espositivo, la AI stabilisce un gioco quasi perverso con il suo creatore, mantenendo un’inquietante parzialità di radice capitalista ed eurocentrica e dimostrando che controllarla del tutto è praticamente impossibile. «L’Intelligenza Artificiale vive dello stesso sistema estrattivisto che questa mostra critica», afferma Andújar, che con i suoi grandi schermi dà il benvenuto ai visitatori di «Fabular paisatge» (fino al 5 ottobre), la prima proposta espositiva del Museo Habitat di Barcellona con cui Manuel Borja-Villel (Burriana, 1957) mette in discussione il modello enciclopedico di museo, che ha contribuito a stabilire una visione unica e gerarchica dell’evoluzione dell’arte, proponendo un’alternativa aperta alla diversità, a nuove visioni della storia e anche a nuove forme di raccontarla.
Così dopo 10 anni che sentiamo Pepe Serra, direttore del Museo Nacional d’Art de Catalunya, annunciare che il Padiglione Victoria Eugenia, creato da Puig i Cadafalch per l’Expo del 1929, accoglierà l’ampliamento del Mnac, a pochi mesi dall’inizio degli agognati lavori, Borja-Villel, con un allestimento basico ed effimero simile a quello di una biennale, dimostra che si sarebbe potuto usare come spazio espositivo da molto tempo. Non c’è aria condizionata per i visitatori che deambulano boccheggiando, ma per le opere più delicate (come una Maestà di Sant Boi de Lluçanès del XII secolo del Museu Episcopal di Vic, un Santiago Rusiñol del Reina Sofía di Madrid, un Esteban Villanueva del Prado e un Modest Urgell della collezione Bbva) sono stati costruiti dei box che ospitano, a temperatura e umidità ideali, il contrappunto storico agli oltre 40 progetti prodotti per l’occasione (l’80% della mostra). In questi spazi si illustrano i momenti storici che articolano il discorso espositivo: le Esposizioni Universali del 1888 e del 1929, il Padiglione delle Missioni, ormai sparito, che fu trasformato in un centro di reclusione per persone «devianti» e la creazione nel 1942 del Museu Etnografico e Coloniale, un dispositivo di legittimazione delle politiche franchiste.
Queste capsule, in dialogo con le opere contemporanee, danno vita alle nuove narrazioni «relazionali e situate» di Borja-Villel, che trasformano una mostra collettiva in un progetto destinato a lasciare il segno.
Tutti gli artisti discriminati per la loro condizione sessuale o razziale sono idealmente riscattati dal progetto del collettivo El Palomar su Ismael Smith, grande promessa dell’arte catalana nel 1910 che terminò i suoi giorni rinchiuso in un manicomio da suo fratello per essere omosessuale. Ottenere i prestiti necessari è stato difficile anche adesso. «Non vogliamo presentare un Ismael Smith queer, ma riscattare la complessità del suo personaggio», spiega El Palomar. Diverse opere ricordano persone e comunità disprezzate, vite rimosse dal percorso della storia ufficiale. Per esempio, Lola Lasurt dà un nuovo spessore a Consuelo, la gitana che posava per Isidre Nonell e che a soli 13 anni diventò la sua amante. La ragazzina, morta a 16 anni insieme alla nonna tra le macerie della loro baracca distrutta da una tormenta, appare in alcune immagini che provocano un profondo malessere. La si vede tra la nonna e l’artista tutto soddisfatto, precocemente invecchiata dalla miseria, con lo sguardo perso in un futuro che le fu sempre negato. Viveva alle falde della collina di Montjuïc che, prima di diventare la montagna dei musei, era quella da cui si estraeva la pietra per costruire la città. Le fotografie di Mabel Palacín ritraggono le vecchie cave, ancora abitate da persone che vivono ai margini della società, in una zona intermedia tra inclusione ed esclusione. Di contro David Bestué ricorda i colori di Montjuïc attraverso un artefatto che replica quelli progettati da Carles Buïgas per illuminare la Fontana Magica, eterno richiamo turistico, che in questo contesto evoca la luce del progresso.
In queste opere prende forma il progetto di museo relazionale e situato di cui parla Manuel Borja-Villel, che ha condiviso la curatela con Beatriz Martínez e l’architetto Lluís Alexandre Casanovas.
Pur non essendo una potenza coloniale, anche la Catalogna partecipò a quel triste momento con l’occupazione della Guinea Equatoriale, del Sahara Occidentale e delle montagne del Riff, momenti ricordati dall’installazione di Efrén Álvarez che materializza la sua critica alla colonizzazione delle Isole Canarie in una specie di affresco-collage dominato da un enorme caganer (scatologico personaggio tipico del presepio catalano) identificato come Domingo Gual, esploratore e mercante di schiavi maiorchino del XIV secolo. La colonizzazione delle Filippine viene plasmata da Cian Dayrit in una specie di arazzo di Bayeaux moderno davvero splendido, mentre Antoni Muntadas ripropone un video del 1975 su Copito de Nieve, il gorilla albino portato da Jordi Sabater a Barcellona, dove visse 36 anni ed ebbe 21 figli, dividendolo in due parti: le immagini del primate e l’intervista all’etologo.
L’ultimo filo conduttore di questo saggio espositivo, che non ha uno sviluppo tematico né cronologico, è il paesaggio che dà titolo alla rassegna e che mette in dialogo le vedute romantiche e sublimi di Modest Urgell e quelle più combattive di Santiago Ruisiñol, con la gigantesca installazione di Dan Lie che presenta un paesaggio fatto di tessuti tinti con curcuma, legno e piante naturali, che si comporta come un organismo vivo.
È vivo anche il contro monumento che la guatemalteca Marilyn Boror Bor attiva con una performance in ricordo dei difensori della terra, delle guide spirituali e dei prigionieri politici della sua comunità. L’opera collega il discorso del Padiglione Victoria Eugenia con quello del Palau Moja, antica dimora di Antonio Lopez, marchese di Comillas, noto negriero il cui monumento fu rimosso qualche anno fa, dove si trovano opere di Jorge Ribalta, Paulo Nazareth e Claudia Claremi che parlano di memoria e spazio pubblico.

Marilyn Boror Bor. Photo @arte.edad.silicio