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Visitiamo insieme la Biennale

Italia, Francia, Australia, Messico e l’esordiente Tunisia tra i padiglioni nazionali da vedere. Fabre, Pistoletto, Huyghe e Byars tra le molte star delle mostre collaterali. Poveristi agli antipodi (Boetti e Anselmo) tra le proposte in città

In questa Biennale «ideata con gli artisti, dagli artisti e per gli artisti», nelle parole della curatrice Christine Macel, le singole partecipazioni nazionali sembrano rendere omaggio al potere dell’immaginazione creativa, un potere definito dalla Macel come «atto di resistenza, liberazione e generosità», attraverso ambiziosi progetti multidisciplinari. Prima fra tutte l’Italia, con «Il Mondo Magico» a cura di Cecilia Alemani, in cui tre giovani artisti italiani dal background internazionale e nati tra gli anni Settanta e Ottanta (Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey) presentano nuovi lavori ispirati alle nozioni di magico e favolistico.
 
Più che una mostra d’arte, il progetto per il Padiglione della Francia, dal titolo «Studio Venezia», assomiglia a un laboratorio sperimentale o a uno studio di registrazione musicale. L’artista di stanza a Parigi Xavier Veilhan, classe 1963, insieme ai curatori Lionel Bovier e Christian Marclay (quest’ultimo vincitore del Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 2011), ha invitato musicisti, produttori e tecnici del suono a realizzare performance collaborative per tutta la durata della rassegna, in un connubio tra arte visiva e musica. «Un’installazione immersiva che trasporta i visitatori in uno studio di registrazione, il tutto ispirato all’opera pioneristica di Kurt Schwitters, il Merzbau», dichiara Veilhan. Tra i musicisti e i compositori che prendono parte al progetto figurano Christophe Chassol, Éliane Radigue, Alain Planès e Jonathan Fitoussi. Un’installazione itinerante, che prevede tappe a Buenos Aires e a Lisbona nel 2018.


Anne Imhof, la giovane autrice della straordinaria opera-performance in tre atti «Angst» (Kunsthalle Basel, Hamburger Bahnhof di Berlino, Biennale de Montréal, 2016), presenta nel Padiglione della Germania un nuovo lavoro di natura performativa. In un’epoca in cui il nostro corpo è sottoposto a mutamenti tecno-farmacologici e a invasive forme di controllo, «la Imhof, commenta la curatrice Susanne Pfeffer, direttrice del Fridericianum di Kassel, mette a confronto la brutalità del nostro tempo con pesante realismo. Problematizza la questione della connettività del corpo e la sua capacità di resistenza (…), e rivela lo spazio tra il corpo e la realtà, nel quale prende forma la personalità».


Se la veterana scultrice inglese Phyllida Barlow occupa il Padiglione britannico con una nuova installazione, il Padiglione della Scozia, quest’anno nella Chiesa di Santa Caterina a Cannaregio, presenta un’opera filmica di Rachel Maclean, i cui iper saturi lavori dall’estetica camp combinano teatro, tecnologia e cultura popolare. 


In «Tomorrow Is Another Day», a cura di Christopher Bedford e Katy Siegel, il losangelino Mark Bradford espone per il Padiglione degli Stati Uniti nuovi lavori insieme a opere già esistenti, tra cui collage e dipinti astratti. Parallelamente, l’artista ha dato avvio a un esperimento di pratica sociale: insieme alla cooperativa veneziana Rio Terà dei Pensieri, che offre supporto ai carcerati, Bradford ha creato un negozio-laboratorio che vende merci prodotte artigianalmente dai detenuti, oltre a offrire workshop e servizi di job placement per gli ex carcerati. 


A rappresentare il Padiglione australiano è la celebre fotografa e filmmaker Tracey Moffatt, classe 1960, in mostra con due video e due serie fotografiche. «Ho portato la mia macchina fotografica in luoghi sconosciuti, e ho creato foto-drammi usando modelli, attori e persone che ho trovato per strada. Le mie storie uniscono fatti, finzione ed elementi dalla mia storia familiare», afferma l’artista. Genere e razza, desiderio e sessualità sono alcuni dei temi esplorati nelle opere esposte. 


Video e fotografie occupano anche gli spazi del Padiglione dei Paesi Bassi. «Cinema Olanda», il progetto commissionato all’artista Wendelien van Oldenborgh e a cura di Lucy Cotter, racconta attraverso still da video e immagini in movimento aspetti dimenticati della moderna storia fiamminga. Due i film in mostra: il primo, che dà il titolo all’esposizione, è girato nel noto distretto di Pendrecht a Rotterdam; il secondo, «Prologo: Squat/Anti-Squat», offre un ritratto dell’edificio Tripolis dell’architetto Aldo van Eyck, ripercorrendone la storia delle occupazioni abusive. 


Alla figura di Alberto Giacometti è ispirato il Padiglione della Svizzera, progettato dallo stesso Bruno Giacometti, fratello dell’artista. «Women of Venice», a cura di Philipp Kaiser, raccoglie lavori di Carol Bove e del duo artistico Teresa Hubbard-Alexander Birchler. Mentre la prima, artista statunitense nata a Ginevra, presenta un gruppo scultoreo concepito a partire dalle opere tardive dello scultore svizzero, i secondi propongono un’installazione filmica dedicata a Flora Mayo, l’amante di Giacometti durante gli anni parigini.


«Gli artisti in “Mirrored”, afferma Mats Stjernstedt, curatore del Padiglione dei Paesi Nordici, rivelano una mappatura di connessioni che oltrepassano confini nazionali e regionali, offrendo una visione sfaccettata di come diverse pratiche artistiche possano relazionarsi le une alle altre». Siri Aurdal, Nina Canell, Charlotte Johannesson, Jumana Manna, Pasi «Sleeping» Myllymäki e Mika Taanila presentano qui lavori che partono dalla metafora dello specchio come «luogo senza luogo», per citare la scrittrice Giuliana Bruno.  


Il Padiglione messicano ospita una mostra personale di Carlos Amorales, dal titolo «Life in the folds» (riferimento al romanzo omonimo di Henri Michaux). Fulcro dell’installazione è un gruppo di poesie scritte in un alfabeto criptato e simili, nella forma, a partiture musicali; ciascun carattere è anche un’ocarina, che emette un suono specifico per ogni lettera. Completa l’esposizione un film d’animazione, che racconta le disavventure di una famiglia di migranti giunta in una città straniera.


Fortemente teatrale nel concetto e nella struttura è il Padiglione della Russia, con lavori di Grisha Bruskin, Sasha Pirogova e Recycle Group. «Theatrum Orbis», titolo che allude all’atlante pubblicato ad Anversa da Abraham Ortelius nel 1570, è composto da un’installazione di sculture figurative di Bruskin, da un labirinto e da lavori della Pirogova e Recycle Group dall’estetica post-digitale. Il tutto accompagnato da musiche create in risposta alle opere dai compositori Dmitri Kourliandski, Peter Aidu e Konstantin Dudakov-Kashuro. 


La Tunisia, che possiede un padiglione per la prima volta dal 1958, presenta un progetto senza artisti fortemente politico. «The Absence of Paths», a cura di Lina Lazaar, coinvolge cittadini tunisini che rilasciano «documenti di viaggio» in tre sedi veneziane nel corso della rassegna. Sollevando delicate questioni legate alla libertà di movimento, il padiglione tunisino, nelle parole di Lazaar, «si sbarazza del manto del nazionalismo a favore di una narrazione più umana e globale». Una piattaforma online interattiva si affianca al progetto, ospitando interventi di varia natura (scritti, fotografie, video) da parte di artisti, pensatori e intellettuali e offrendo così variegati punti di vista sul tema della migrazione.

Federico Florian, 11 maggio 2017 | © Riproduzione riservata

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Visitiamo insieme la Biennale | Federico Florian

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