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Flaminio Gualdoni

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Lo storytelling batte qualsiasi spiegazione 

 

Al Van Gogh Museum di Amsterdam son tempi difficili, accidenti. Uno che è morto a meno di quarant’anni e non stava tutto il giorno a dipingere lascia quei quadri lì e non altri: pochi, e va a finire che di mostra in mostra sono un po’ sempre quelli.

 

Poi, si sa, la gente tra un attentato e l’altro è distratta, e i nostri media ci stanno abituando a una specie di «snuff movie» permanente effettivo. Meglio inventarsi qualcosa, altrimenti il pubblico arriva, si fa due selfie e via, senza neanche fermarsi a mangiare le torte del Café Le Tambourin.

 

Tocca fare come le osterie che rendono i piatti più salati altrimenti la gente beve poco. Dunque, che cosa si inventano i nostri eroi? Intanto rispolverano un vecchio classico, la faccenda della pazzia di Van Gogh. Il che ci sta, ovviamente, anche perché è il capitolo che fa più storytelling di tutta la vita del nostro, un concentrato di luoghi comuni così fitto e intrecciato che ogni volta la vicenda si può raccontare con coloriture diverse, e l’unico capace di generare una quantità somma di delirii, giusto per stare in tema, anche ex post. 

 

La cosa che già nel 1947 fece incazzare un bel po’ Antonin Artaud era il libro di uno psichiatra che s’intitolava Sul demone di Van Gogh, e dopo pochi decenni adesso il nostro ha l’onore di un intero scaffale di pensosi saggi neuroscientifici, di quelli che ci spiegano che gli artisti, si sa, hanno assai più predisposizione degli altri alla sindrome maniaco-depressiva e alla schizofrenia (!), e oltretutto lui era uno che sbevazzava e andava a puttane, cosa che notoriamente le persone per bene non fanno mai, ma forse andar per bordelli era una sfida lanciata alla società borghese (giuro, anche questa vaccata s’è letta, e in testi seriosi) e in ogni caso portare in omaggio alla sciura Rachel un orecchio mozzo al posto di un mazzolino di fiori non è una cosa ammodo. Con tutti gli spin-off del caso. Quelli che mi divertono di più adombrano che forse, sotto sotto, lui e Gauguin erano un po’ gay come Batman e Robin, nel qual caso anche la variante che a tagliare l’orecchio all’amico sia stato Gauguin (con un colpo di spada o di sciabola? Intanto c’è da scriver subito altri saggi per dirimere il dubbio se l’una o l’altra, e poi vuoi mettere che figata l’idea di un pittore che va in giro per Arles armato da bravo, proprio come Caravaggio?) schiude orizzonti inesplorati, ma di sicuro effetto. 

 

Una roba così funziona sempre, e ha il vantaggio decisivo di esimere chiunque dal chiedersi e dal dover spiegare perché i Van Gogh sono i Van Gogh. Che poi sarebbe l’unica cosa che interessava, nei musei, ma tanto tempo fa, prima che inventassimo le gioie dell’esperienza immersiva e il culto di ritorno delle reliquie. Dunque, i pezzi forti di questa mostra non sono mica i quadri, che poi, appunto, son sempre quelli, assomigliano troppo alle loro cartoline e ai calendari per prenderli sul serio, ma i seguenti oggetti: un disegnetto di Félix Rey, il medico curante, che descrive in dettaglio (nel 1930!) al colto e all’inclita il taglio inflitto all’orecchio di Van Gogh; il cartoncino di partecipazione funebre spedito in giro dal fratello Théo e, rullo di tamburi, un pezzaccio di ferro vecchio che è poi il revolver, spiegano, tipo «Lefaucheux à broche» da 7 millimetri, con cui il pittore si è infine sparato. 

 

Tu vedi queste cose, e ci mediti sopra. Van Gogh sì che era un grande. Per dire, un altro, uno banale, magari si sparava con una ordinaria Le Mat o con una Chamelot-Delvigne fuori moda, e non sarebbe stata la stessa cosa. Un altro non si sarebbe tagliato l’orecchio così ma cosà, e la storia dell’arte ne sarebbe uscita debitamente stravolta.

 

Son già qui che mi pregusto la visione, certo imminente, delle ciabatte di Olympia e della giarrettiera di Kiki de Montparnasse: se poi è rosa come quella cantata da Paolo Conte, bingo. 

 

Flaminio Gualdoni, 10 settembre 2016 | © Riproduzione riservata

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