C’è persino il baldacchino commissionato nel 1865-70 dal maharaja Khanderao Gaekwad, composto da 950mila perle con diamanti, rubini, zaffiri e smeraldi, per la tomba del profeta Maometto a Medina, ma mai uscito dall’India.
La definizione di «tesori» è quindi quanto mai appropriata per la mostra «Dai Gran Moghul ai Maharaja. Tesori della collezione Al Thani» (catalogo Skira), in programma dal 9 settembre al 7 gennaio a Palazzo Ducale e a cura di Amin Jaffer, conservatore capo della collezione, e di Giancarlo Calza, docente di Ca’ Foscari.
Epicentro della mostra, che riunisce gioielli della collezione di Abdullah Al Thani, della famiglia reale del Qatar, è l’India dell’impero Moghul (XVI-XVIII secolo), ma con le diramazioni che prima il colonialismo e poi la globalizzazione hanno comportato, con ricadute fino al XX secolo, come dimostra il collier di rubini e diamanti Nawanagar, dal nome del maharaja committente, realizzato da Cartier nel 1937.
A prevalere è il significato simbolico, persino cosmico dei gioielli, oltre a quello sociale che connota la casta di provenienza. Emblema del potere, soprattutto, come il trono a forma di tigre di Tipu Sultan del 1787-93. È la ricchezza più sfrenata, anzi diamantina, come «Arcot II» che brillava sul décolleté della regina Charlotte, moglie di Giorgio III d’Inghilterra.
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