Un secolo di atelier alla Whitechapel Gallery

Lo studio di un artista non è solo un’«officina meccanica», ma anche uno spazio di meditazione e laboratorio sociale, una realtà parallela per chi vi abita

«Cell IX» (1999) di Louise Bourgeois. Cortesia della D. Daskalopoulos Collection. © The Easton Foundation/VAGA at ARS, NY e DACS, Londra 2021
Federico Florian |  | Londra

«Lo studio è il tuo tempio sacro: è il laboratorio di un inventore, la cameretta di un adolescente, il garage di un meccanico, una loggia per sedute spiritiche, una fortezza della solitudine, la cella di una prigione, una macchina dell’estasi, un condotto spaziotemporale o una rampa di lancio». Lo scrive Jerry Saltz, il critico americano Premio Pulitzer ed ex artista «fallito». Lo studio, specchio dell’immaginazione di ogni artista, è un luogo di invenzione e sperimentazione; una realtà parallela per chi vi abita, soggetta alle leggi mutevoli della creazione: «una stanza tutta per sé», per dirla con Virginia Woolf, territorio imprescindibile e indispensabile a ogni pratica creativa.

A questo spazio quasi sacrale la Whitechapel Gallery dedica, fino al 5 giugno, una grande mostra, in cui un secolo di arte e di storia, dal 1920 al 2020, è illustrato e interpretato attraverso la pratica dello studio e i luoghi di lavoro degli artisti. A comporre «A Century of the Artist’s Studio» sono oltre cento opere, da sculture a dipinti, film e installazioni, realizzate da ottanta artisti in tutto il globo, tra icone assolute dell’arte novecentesca (come Egon Schiele e Francis Bacon) e maestri contemporanei.

«Cell IX» (1999), la scultura monumentale di Louise Bourgeois, apre il percorso espositivo, immaginando lo studio come un portale ma anche come una prigione: un microcosmo fisico e psicologico, abitato da specchi e frammenti corporei, contenuto in una struttura che rammenta una gabbia o una macchina del tempo. E se per Tracey Emin lo studio riflette la dialettica tra intimità e voyeurismo, come rivelano le fotografie di una sua performance del 1996, in cui l’artista dipingeva nuda mentre il pubblico sbirciava da una serie di spioncini, per le «arpilleristas» cilene degli anni Settanta lo studio costituiva uno spazio di solidarietà e azione politica protetta dall’anonimato, in cui artiste donne producevano collettivamente ricami di iuta le cui scene figurative documentavano storie di torture e sparizioni sotto la dittatura di Pinochet.

«Questa mostra vuole tracciare le dinamiche centrifughe e centripete connesse allo studio d’artista in quanto forza vitale nella produzione visiva. Ma riafferma anche il suo ruolo cruciale come fucina creativa che lega l’individuo alla società», dichiara Iwona Blazwick, l’ideatrice del progetto espositivo, concepito a partire da un’idea degli storici dell’arte Giles Waterfield e Dawn Ades, e frutto di tre anni di ricerca.

«In tutto il mondo politiche culturali sempre più autoritarie stanno mettendo sotto assedio gli studi umanistici; al tempo stesso la crescita della popolazione urbana e progetti di sviluppo immobiliare rendono praticamente impossibile per un giovane artista trovare uno studio in città, continua Blazwick. “A Century of the Artist’s Studio” celebra l’energia, l’invenzione e lo spirito imprenditoriale che informano l’arte che nasce nello studio, elevando questo luogo a fonte d’ispirazione per tutti noi».

Tra gli altri lavori chiave, un disegno a pastello di Schiele del 1918, che tratteggia uno studio improvvisato in un campo per prigionieri di guerra in cui l’artista lavorava come portiere, e un ritratto di pittrice del 2008 di Kerry James Marshall, la cui protagonista solleva verso lo spettatore un’enorme tavolozza, quasi in un gesto di sfida. Immancabile il celeberrimo film di Fischli & Weiss, «The Way Things Go» (1987), in cui lo studio si trasforma nella scena di un’epica reazione a catena che coinvolge gli oggetti e i materiali di lavoro dei due artisti. Completano la mostra una serie di «studio corners», riproduzioni di studi reali, e una selezione di immagini di artisti al lavoro scattate dai grandi fotografi della modernità: fra questi, Henri Cartier-Bresson, Gisèle Freund e Stephen Shore.

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