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Un Campione di efficienza museale

Antonio Aimi

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Un «cervello in fuga» ha trasformato in 11 anni il Museo delle Culture. Ora fa profitti ed esporta mostre in tutta Europa, anche in Italia

Al Palazzo del Governatore di Parma è in corso fino al 5 giugno la mostra: «Giappone Segreto. Capolavori della fotografia dell’800». La rassegna, curata da Francesco Paolo Campione, direttore del Museo delle Culture di Lugano (Mcl), e da Marco Fagioli, offre l’occasione di approfondire la conoscenza delle opere della cosiddetta Scuola di Yokohama, la cui caratteristica risiedeva nel coniugare la fotografia, la forma artistica allora più all’avanguardia, con la tradizione delle arti grafiche giapponesi. L’elemento che caratterizza l’esposizione, tuttavia, non è costituito soltanto dalla presenza di 140 opere eccellenti realizzate tra il 1860 e il 1910, ma dal fatto che è l’ennesima mostra prodotta ed esportata presso altre sedi dal museo svizzero. Per essere precisi, con quella di Parma, le mostre ideate, prodotte e realizzate dal Mcl sono 81 (una ogni 45 giorni), metà a Lugano e metà in 24 città di 5 Paesi diversi (Svizzera, Italia, Francia, Danimarca e Giappone). Tutto questo si deve a una sola persona, un altro «cervello in fuga», Francesco Paolo Campione, 51 anni, specialista di antropologia dell’arte, di museologia e di gestione di organizzazioni che operano in campo culturale. Certo, Campione non ha fatto tutto da solo: ha potuto contare su uno staff di 8 persone e sul fatto che in Svizzera, come in tutti i Paesi seri, si mettono le persone che operano nei musei e nelle università in condizione di lavorare normalmente (pur senza risorse stratosferiche, è bene sottolineare), perché lì la cultura non è considerata un peso inutile o, peggio, una vacca da mungere. Quando Campione ha assunto l’incarico di direttore del Mcl, il museo era, nei fatti, una struttura agonizzante, senza personale scientifico e con pochissimi visitatori.

Professor Campione, ci può fornire qualche dato sui risultati della sua politica museale?

Da quando nel 2005 sono diventato direttore del Mcl ho presentato ogni quattro anni un piano di attività, che poi abbiamo puntualmente realizzato. Dal 2006 al 2015 il patrimonio è aumentato di oltre 10mila opere, soprattutto grazie a donazioni e depositi, sostenuti da contributi economici per la loro valorizzazione. Le opere sono state tutte schedate. Il budget è decuplicato, mentre la quota di autofinanziamento è cresciuta dallo 0,1% a oltre il 30%. A Lugano, i visitatori sono passati da 600 a 24mila, mentre i visitatori delle nostre esposizioni in sedi esterne sono stati, in alcuni casi, anche più di 100mila, con ricavi proporzionali. Le attività educative sono state oltre 150 l’anno, mentre le attività formative di livello universitario hanno superato le 300 ore l’anno, in buona parte assicurate dal personale e dai collaboratori del museo. Abbiamo inoltre ospitato circa 25 persone all’anno per stage, tesi e periodi di servizio civile. Le pubblicazioni (tutte esito della ricerca condotta dal museo) sono state 64 (una ogni 57 giorni), con la partecipazione di 222 autori di 23 Paesi. Il personale scientifico ha pubblicato oltre 200 articoli scientifici e volumi. Il nostro modello di organizzazione è servito anche per il riassetto di altri musei, come il Meg-Musée d’Ethnographie di Ginevra o il Mao, Museo d’Arte orientale di Torino. I risultati hanno reso evidente che non potevamo più restare nella sede, splendida ma periferica, dell’Heleneum, tanto che il Comune, grazie anche a ingenti contributi privati, ha approvato il trasferimento a Villa Malpensata, che sarà riallestita e dotata di nuove strutture. Gli uffici e gli impianti operativi traslocheranno entro l’anno. Le esposizioni riprenderanno a inizio 2018.

Il Municipio di Lugano ha approvato anche la trasformazione della governance del Museo delle Culture. Che cosa cambierà? 

Se il Consiglio comunale confermerà le decisioni del Municipio, dal primo gennaio 2017 il museo cesserà di essere un servizio comunale per essere gestito dalla Fondazione culture e musei, soggetto che potrà riunire altri musei e organizzazioni culturali, con una governance di tipo pubblico/privato, un modello di funzionamento misto (istituzione/impresa) e certificabile con parametri numerici per fissare gli obiettivi percentuali delle aree di gestione.

Nel suo libro «Cultura. Punto e accapo» (Franco Angeli, 2013), lei sostiene che l’attuale sistema di organizzazione e gestione della cultura in Italia non risponde più a logiche di sviluppo e propone l’autonomia delle organizzazioni culturali e l’adozione di moderni standard di funzionamento. È la ricetta che ha usato a Lugano?

Sì, senz’altro.

La riforma Franceschini va nella direzione auspicata da lei e dagli altri estensori del volume?

Credo di sì. L’efficacia dei provvedimenti presi non potrà, tuttavia, essere sufficiente a produrre le trasformazioni sperate se non si agirà con più decisione nella creazione di un contesto normativo e organizzativo adeguato. Servono leggi che incoraggino davvero i privati a partecipare alle governance; serve una reale autonomia di gestione per generare risparmi nei consumi primari, per modificare la politica degli impieghi e dei salari e per produrre attività capaci di profitto; serve una sforbiciata ai privilegi e alle rendite di posizione e la formazione di una classe dirigente con le competenze e l’esperienza internazionale necessarie a guidare la trasformazione.

Le risorse per i musei non sono adeguate?

Il problema non sono le risorse. La vera sfida è nella trasformazione della logica di funzionamento e dell’organizzazione, cercando di vedere lontano. 

Antonio Aimi, 03 maggio 2016 | © Riproduzione riservata

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