Redazione GDA
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Pare che il gerarca nazista Hermann Göring esclamasse «Tomassi chi, quello che non ha mai tempo?», riferendosi al pittore di Subiaco che nel 1936 si era trasferito in Germania, diventando un ritrattista molto ricercato. La terra della Neue Sachlichkeit fu un naturale approdo per Renato Tomassi (1884-1972), che completò la sua formazione viaggiando nel Nord Europa. A Roma si legò al circolo mitteleuropeo, in particolare ai tedeschi Otto Greiner e Sigmund Lipinsky, costituendo quella parte della cultura artistica della capitale che nei primi decenni del Novecento guardava a Schiele, Klimt e Liebermann.
Dal 4 maggio al 10 giugno, Gianluca Berardi propone una mostra su Tomassi, curata da Matteo Piccioni, che ne ripercorre l’attività dai primi quindici anni del Novecento, con ritratti a china e pastello, alla fase delle decadi Venti e Trenta, quando i ritratti si stagliano su un paesaggio caratterizzato.
Una sezione è dedicata alla produzione in Germania, dove il suo stile vira verso l’Espressionismo. Dagli inizi Tomassi mostra un’analisi lenticolare della realtà, poi sfociata nel Realismo magico, che rese molto apprezzati i suoi ritratti, come prova quello di Irene Ibsen, nipote del grande drammaturgo. In mostra opere eseguite durante la Grande Guerra sul fronte trentino, tra cui «Il mio attendente» e «In posa» (1917). «Mia moglie» (1926) e «Ritratto di Andrea» (1932) sono caratterizzati da una visione intima e ravvicinata del soggetto, resa con una linea animata e un cromatismo luminoso. L’introduzione in catalogo è di Cinzia Virno.
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