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Olga Scotto di Vettimo
Leggi i suoi articoliUna collettiva transgenerazionale o sei distinte mostre personali di artisti appartenenti a tre diverse generazioni? «Accesso», a cura di Christian Malycha, fino all’8 gennaio alla galleria Alfonso Artiaco, si propone come un’esperienza articolata attraverso differenti percorsi, ricerche e linguaggi: sei artisti, sei sale, tre generazioni, due nazionalità (artisti tedeschi, come il curatore, a eccezione dello statunitense Schutter), un medium (la pittura), enne significati.
Albert Oehlen (Krefeld, 1954) esplora le possibilità e i limiti della pittura stessa, decostruendola fino a scovarne gli elementi costitutivi. In tal modo l’artista crea nuovi percorsi per ridefinire lo statuto della pittura. Attraverso una coesione pittorica precaria l’artista espone in mostra un’immagine volutamente frammentata, che, se ben visualizzata, non è altro che la stessa «Ö-Norm» («standard Ö») contenuta nel suo nome.
Anche il lavoro di André Butzer (Stoccarda, 1973) si confronta con la pittura, esplorandone la storia, i limiti e le possibilità, mescolando, come nelle opere esposte, colori, linee, figurazione, astrazione, politica, arte (da Tiziano a Cézanne) e cultura pop (la gelateria «Baskin e Robbins»).
David Schutter (Pennsylvania, 1974) utilizza immagini di maestri del passato come pretesto di indagine storico-artistica-sociale. Nei lavori in mostra, dipingendo immagini tratte da Manet, Champmartin e Frans Hals, l’artista, attraverso stratificazioni di colore, fa emergere elementi presenti o assenti nella vita reale dei maestri a cui ha guardato.
Nei dipinti di Ulrich Wulff (Kampten, 1975) l’astrazione non è un processo di sperimentazione formale, ma si presta a essere un’indagine sulle mutevoli condizioni sociali e culturali. Ciò avviene anche quando utilizza l’autoritratto come atto di autocritica consapevole, che estende a tutta l’esperienza umana.
Jana Schröder (Brilon, 1983), allieva di Oehlen all’Accademia di Düsseldorf, realizza una pittura segnica che sembra derivare da un gesto performativo. In tale pratica scritturale, realizzata mediante stratificazioni e sovrapposizioni ottenute anche con tecniche digitali, viene meno qualsiasi leggibilità delle singole lettere.
Diversamente dalla precedente produzione, in cui le immagini astratte non corrispondevano ai titoli attinti dalla banalità del quotidiano, nei lavori in mostra di Raphaela Simon (Villingen, 1986) i titoli apparentemente fungono da appropriate didascalie delle immagini dipinte. Tuttavia, l’utilizzo del colore complica questa immediata equivalenza tra il nome e la cosa, mettendo in discussione la certezza e l’oggettività della percezione.

«Baskin und Robbins», 2020, di André Butzer