Ter Brugghen, un olandese sulle orme di Caravaggio
Nelle Gallerie Estensi di Modena una monografica dedicata al soggiorno italiano, nei primi anni del Seicento, del pittore di Utrecht

Certo non un nome di «prima fascia» per il grande pubblico, ma apprezzatissimo dagli esperti per l’evidente qualità della sua pittura, l’olandese Hendrick ter Brugghen (1588-1629) è uno dei maggiori esponenti del gruppo d’artisti che nell’Europa settentrionale si imbibì della lezione caravaggesca.
Di famiglia cattolica, cresciuto a Utrecht dove entrò presto in contatto con il più anziano Abraham Bloemaert, rimase a Roma per alcuni anni tra il 1604 e il 1614 (in corso la definizione precisa degli anni da parte degli studiosi), dunque durante il periodo che nell’Urbe vide all’opera Michelangelo Merisi. I suoi dipinti di soggetto religioso e quelli di genere ebbero notevole successo tanto che l’artista ebbe lodi anche da Rubens, di passaggio a Utrecht nel 1627, ma successivamente la fortuna critica di ter Brugghen crollò notevolmente tra i secoli XVIII e XIX, salvo riemergere pienamente nel ’900.
Ora a Modena, alle Gallerie Estensi di Palazzo dei Musei, arriva dal 13 ottobre al 14 gennaio 2024 la prima ampia monografica italiana, «Ter Brugghen. Dall’Olanda all’Italia sulle orme di Caravaggio», curata da Gianni Papi e Federico Fischetti: l’appuntamento analizza il suo soggiorno italiano che proprio Papi iniziò ad approfondire studiando una delle opere capitali dell’olandese, la «Negazione di Pietro» (1605-14), oggi a Londra in collezione Spier ma già nella celebre raccolta romana del marchese Vincenzo Giustiniani.
Altre le opere presenti a completamento della produzione del periodo romano: sempre dalla londinese Spier giunge un’«Adorazione dei pastori», oltre al «San Giovanni Evangelista» dei Musei Reali-Galleria Sabauda di Torino, un «Santo Stefano» della Koelliker di Milano, un ipotizzato autoritratto da giovane proveniente dalla Galerie Jacques Leegenhoek di Parigi.
Lungo il percorso si incontrano anche un «San Giovanni Battista» forse dipinto insieme a Giulio Cesare Procaccini nel 1614 (dal Museo della Certosa di Pavia), la «Cena in Emmaus» prestata dal Kunsthistorisches Museum di Vienna, «Pilato si lava le mani» (1615-20) dal Museo Nazionale di Lublino (Polonia), la «Vocazione di Matteo» del 1620 conservato a Le Havre al Musée d’art moderne André Malraux, tutti lavori che fanno da corona a un olio su tela che gioca in casa essendo di proprietà dell’Estense, un «Santo scrivente» datato al 1614.
Intorno a questo nucleo forte a completare la rassegna che assomma 23 pezzi sono presenti altri dipinti dell’olandese, realizzati successivamente al periodo romano, nella patria Utrecht, da cui si evince un rapido cambiamento del linguaggio, lontano dall’influenza di Roma e non più così direttamente legato alla «schola» di Caravaggio. La sua pittura, infatti, diviene dopo il soggiorno italiano maggiormente fluida, caratterizzata da virtuosismi e leziosità non disgiunte da aspri nordicismi nelle figure. Opere appunto più «nordiche» come mostra il confronto con pittori coevi esposti in questa sezione tra cui Ribera, Honthorst e il già citato Giulio Cesare Procaccini, oltre al ticinese Giovanni Serodine a volte «confuso» proprio con ter Brugghen.
«Fino a poco tempo fa, scrive Papi in Un misto di grano e di pula. Scritti su Caravaggio e l’ambiente caravaggesco (Editori Paparo, Napoli 2020, pp. 40-55), la prima occasione editoriale della messa a punto di un primo catalogo romano dell’artista oggi esposto pressoché per intero a Modena, la fase italiana dell’artista non contava nemmeno un dipinto, rimaneva un territorio sconosciuto e off limits, intorno al quale sembrava inutile anche provarsi a fare proposte. Vi sono però tracce da non trascurare, la più importante è sicuramente l’inserimento di “Enrico” (indubitabilmente il nostro pittore) nel famoso “Discorso sulla pittura” di Vincenzo Giustiniani, in cui il marchese nomina quegli artisti che svilupparono in modo diverso il linguaggio caravaggesco: a fianco di “Enrico”, vengono dunque nominati “Gherardo” (Honthorst), “Teodoro” (Baburen) e “Giuseppe” (Ribera)».
Da lì, pochi anni fa, partì lo studio appunto della «Negazione di Pietro» citata da Giustiniani che il curatore della presente rassegna identifica proprio con il dipinto Spier: ora a Modena sarà possibile vedere da vicino l’incandescenza creativa dei frutti del periodo romano, così diversa dal periodo successivo e finale dell’artista morto giovane. Non una novità questo cambiamento repentino visto che anche il contemporaneo Gerard van Honthorst realizzò dipinti molto diversi una volta tornato a Utrecht dopo i periodi romano e genovese.