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Straordinaria e multiculturale

Federico Castelli Gattinara

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A un anno esatto dalla tortura e decapitazione di Khaled al-Asaad eseguita dai terroristi dell’Isis il 18 agosto 2015, è uscito per Garzanti un volumetto di un centinaio di pagine su Palmira dell’archeologo e storico francese Paul Veyne dedicato allo sventurato collega siriano, che per 40 anni ha diretto quel sito patrimonio mondiale dell’Umanità (120 pp., Milano 2016, euro 15,00).

L’autore, che ha 86 anni ed è membro onorario del Collège de France dove ha insegnato per 23 anni, ha passato l’intera vita a studiare la civiltà greco-romana incrociando di continuo, inevitabilmente, la città di Palmira. Questa volta però ha voluto scrivere un saggio non da specialista ma da professore di storia, ossia da «guida turistica nel tempo», legato alle ineludibili domande che la feroce attualità ci pone, al ritorno dell’iconoclastia di questo inizio secolo verso «monumenti inoffensivi di un lontano passato» paragonabili solo alle meraviglie di Pompei e di Efeso.

Nel rievocare le caratteristiche e lo sfarzo di questa città del deserto, nel farne un ritratto vivo e pulsante in cui al lettore pare quasi di percepirne il fermento, luce e odori, Veyne fornisce una chiave per la comprensione di tanta cieca violenza: «Palmira non era paragonabile ad altre città dell’impero. Che la sua arte sia primitivista, orientale, ibrida o ellenizzante, che i suoi templi siano forniti o meno di finestre, che i suoi notabili indossino un abito greco o arabo, che la lingua parlata sia l’aramaico, l’arabo, il greco e perfino, nelle grandi occasioni, il latino, si sente soffiare su di lei un fremito di libertà, di anticonformismo, di “multiculturalismo”».

Città straordinaria, che assorbe e rielabora elementi da Oriente e da Occidente, ma che rimane sempre se stessa, «né ellenizzata né romanizzata nella sua molteplicità», con artisti che sviluppano uno stile originale, meticcio e tinto di primitivismo. Così si inquadrano e sfilano davanti a noi dèi antichi, culti e banchetti sacri, imperatori e regine, arte e commerci carovanieri lungo strade che appaiono come «selve di colonne nell’immensa piana deserta», per usare le parole di Hölderlin.

E sulla tragedia dell’iconoclastia insiste anche la mostra «Rinascere dalle distruzioni. Ebla, Nimrud, Palmira» dal 7 ottobre all’11 dicembre al Colosseo, ideata e curata da Francesco Rutelli e Paolo Matthiae, che meno di un anno fa pubblicava per Mondadori Electa un volume proprio su Distruzioni saccheggi e rinascite. Gli attacchi al patrimonio artistico dall’antichità all’Isis (cfr. n. 361, feb. ’16, p. 19).

Fulcro dell’esposizione è la ricostruzione in scala 1:1 con le più moderne tecnologie (stampanti 3D ecc.) di tre monumenti: il Toro di Nimrud, la sala dell’Archivio di Stato di Ebla e il soffitto (ma solo metà) del tempio di Bel a Palmira. Perché, dice Rutelli, bisogna «dimostrare che le ricostruzioni sono possibili e preparare il terreno per la loro reale messa in opera una volta liberati i siti dalla guerra».

Significativa la coincidenza con la sentenza della Corte dell’Aia, che per la prima volta ha processato il principale responsabile delle distruzioni nel 2012 del patrimonio culturale islamico di Timbuctù: la devastazione delle moschee è stata considerata un crimine di guerra e come tale perseguita e sanzionata affermando un principio di tutela internazionale (cfr. art. in notizie).

In mostra anche un’installazione di Studio Azzurro (catalogo Electa). Sempre al patrimonio culturale in pericolo è dedicata una mostra fotografica in corso nel Museo di Sant’Eustorgio a Milano dal titolo «Salvare la memoria» (fino al 6 novembre), seconda tappa di una rassegna curata da Sandrina Bandera ed Elena Maria Menotti che aveva preso il via all’Archeologico di Mantova il 24 marzo scorso (cfr. n. 364, mag. ’16, p. 27).

Federico Castelli Gattinara, 01 ottobre 2016 | © Riproduzione riservata

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