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Sono 620 i capolavori rimasti nascosti

Federico Castelli Gattinara

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L’intesa prevede che in carico alla famiglia rimanga la proprietà dei beni ma anche l’onere di manutenzione e restauri. Presto una mostra itinerante mentre il progetto per un nuovo museo è ancora lontano

«L’aggettivo storico in questi due anni non l’ho mai utilizzato, ma ora…»: così ha esordito il 15 marzo il ministro Franceschini alla firma dell’accordo per la fruizione pubblica della collezione Torlonia, tra i due direttori generali per l’Archeologia e le Belle Arti Gino Famiglietti e Francesco Scoppola, il soprintendente per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’area archeologica di Roma Francesco Prosperetti e il trentaquatrenne rampollo della famiglia, Alessandro Poma Murialdo, presidente della Banca del Fucino nonché rappresentante legale della Fondazione Torlonia. 

L’oggetto è la più importante raccolta privata d’arte antica al mondo (620 tra sculture, busti, sarcofagi, rilievi e altro di arte greca e romana, in marmo ma non solo), che nel 1859 il principe banchiere Alessandro Torlonia volle ordinare in 77 sale nel palazzo di via della Lungara. Poi, circa quarant’anni fa, la chiusura del museo e la trasformazione del palazzo in 93 miniappartamenti abusivi, come verificato nel 1979 dalla Corte di Cassazione, che senza mezzi termini parlò di «distruzione del museo e di quanto esso rappresentava per gli studiosi», stigmatizzando il trasferimento delle sculture «in locali angusti, insufficienti, pericolosi, stipate in maniera incredibile, addossate l’una all’altra senza alcun riferimento storico o di omogeneità».

Da allora si è cercata una soluzione al problema. Se ne occuparono Antonio Cederna anche da parlamentare, Walter Veltroni quando era sindaco di Roma, Silvio Berlusconi da premier, nel 2002 un apposito disegno di legge che prospettava l’acquisizione della collezione al Demanio dello Stato e il suo allestimento al Palazzo dei Musei in via dei Cerchi. Tutti senza esito. Intanto il reato edilizio cadeva in prescrizione. 

Oggi il Dicastero guidato da Franceschini rivendica a buon diritto un successo storico ottenuto tramite un dialogo lungo, conciliante, di intervento a fianco del privato, che evidentemente ha convinto i proprietari. In effetti esiste un problema più generale, e il ministro ne è consapevole, per quanto riguarda le tante dimore storiche ancora in mani private, su cui giustamente pesano vincoli ma non c’è alcuna forma d’aiuto pubblico. La scelta quindi di un percorso condiviso con la Fondazione Torlonia è risultata vincente e avrà come primo esito nella seconda metà del 2017 una mostra a Palazzo Caffarelli, curata da Salvatore Settis affiancato da Carlo Gasparri, di alcune decine di pezzi, tra i 60 e i 90, che per l’occasione e a seconda delle necessità saranno ripuliti o restaurati.

La selezione è ancora tutta da decidere, assicura Settis, che si sbilancia solo sul Sarcofago Savelli, «perché si presta a un racconto sia sulla storia dei restauri che della collezione». La mostra avrà poi due tappe, una in Europa e una negli Stati Uniti: città e sedi top secret. Solo dopo nascerà il museo permanente in una prestigiosa sede romana ancora da scegliere, cercando di ricordare nell’allestimento anche il museo storico, il primo a dotarsi nel 1881 di un catalogo fotografico per noi preziosissimo.


Una collezione tanti rimandi

La collezione è di eccezionale rilevanza non solo per i molti capolavori che conserva, ma anche per la storia del collezionismo, avendo assorbito nell’Ottocento alcune delle maggiori raccolte nobiliari (e non solo) di antichità, prima tra tutte quella di Vincenzo Giustiniani, uno dei più grandi conoscitori d’arte di primo Seicento, e del fratello Benedetto.

I rimandi sono continui: «Si potrebbero fare non una ma venti mostre», spiega Settis mostrando il Vaso Cesi ora Torlonia accanto a un disegno cinquecentesco di Maarten van Heemskerck che lo ritrae nel giardino dei Cesi. Importanti opere provengono pure dallo studio dello scultore e restauratore Bartolomeo Cavaceppi, il quale alla sua morte, nel 1799, lasciò tutto all’Accademia di San Luca che vendette buona parte della sua raccolta ai Torlonia, primo grandioso acquisto del genere della famiglia.

Poi Villa Albani sulla via Salaria, ceduta ai Torlonia nel 1867 insieme alla collezione di pezzi antichi ordinata a suo tempo da Winckelmann, bibliotecario e principale consigliere del cardinale Albani. Infine i tanti reperti provenienti dagli scavi nelle vaste proprietà terriere nei dintorni di Roma.

L’importanza infine sta anche nella complessa e variegata visione dell’antico che la collezione offre, con restauri e integrazioni talvolta quasi più interessanti delle sculture stesse, firmati in certi casi da artisti quali Algardi, Bernini e Duquesnoy. In realtà nella raccolta tutto si mescola, e ad altissimo livello: arte greca e romana, ritratti e sculture ideali, restauri idealizzanti, integrazioni pesanti o, viceversa, rispetto del pezzo nelle sue lacune, come per esempio nella straordinaria «Fanciulla Torlonia» col naso spezzato, ritrovata a Vulci. L’accordo stabilisce che alla Fondazione rimanga la proprietà della collezione, ma anche per intero l’onere di manutenzione e restauri.

Le opere «sono state finora conservate con cura e sottoposte a una costante e scrupolosa opera di restauro, assicura Poma. Non è vero che siano state stipate in degli scantinati come si legge sui giornali, contesta, ma raccolte in tre sale dell’ex museo poi murate per ragioni di sicurezza. I 21 pezzi più belli, su richiesta della Soprintendenza, sono stati trasferiti nel nostro palazzo di via della Conciliazione». 

La strada che porta al nuovo museo sarà certamente lunga, ma è vitale che sia stata tracciata e intrapresa, restituendo un patrimonio inestimabile alla fruizione e allo studio.

Federico Castelli Gattinara, 13 aprile 2016 | © Riproduzione riservata

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