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Social ma pur museo

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Flaminio Gualdoni

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«Storytelling, post, tweet, contest, hashtag: per un futuro fatto di inclusività che punti sulla relazione emotiva con il pubblico, il nuovo vocabolario dei musei italiani non potrà prescindere dal mondo dei social media e dalle loro potenzialità». Il comunicato Ansa del 24 novembre scorso che riferiva del rapporto Civita #socialmuseums. Social media e cultura fra post e tweet mi ha dato un bel po’ da pensare. Non solo perché, pur non essendo un fanatico sciovinista come certi francesi, questa storia di anglicizzare la qualunque continua a sembrarmi un modo di verniciare di ficaggine a basso prezzo un provincialismo che temo ormai insanabile: dopo aver visto un ministro leghista, il buon vecchio Maroni, fare un giorno il vessillifero dei dialetti locali e un giorno il ministro dell’appositamente ribattezzato welfare, ho capito che c’è poco da fare.

Ciò che mi dà da pensare di più è che continuiamo a straparlare dei musei come di luoghi massimamente desiderabili, ai quali vada ogni nostra attenzione, ma non andiamo mai al di là dei soliti sproloquietti da comizio televisivo: «bisogna investire sulla formazione di nuove professionalità», occorre «una progettualità innovativa, con strategie digitali singole per ogni istituzione ma anche servizi digitali a rete», roba che va bene che si parli di una Asl, di un ufficio delle tasse, della totalità della pubblica amministrazione o di una festa patronale. Bello, fare un «social museum»: non male anche, direi, fare un museo che sembri almeno un po’ un museo, ancorché parlato in italiano.

Chi abbia visto un impiegato di Soprintendenza lottare sudante con un file Word (Excel no, forse è troppo) e i suoi due indici che battono cauti come se i tasti scottassero mentre gli occhi percorrono ansiosi la tastiera alla ricerca della prossima lettera; chi abbia cercato di convincere una sussiegosa direttrice che appendere a mo’ di didascalia la scheda scientifica in italiano stile 1930 dell’opera esposta è una vaccata (e magari la didascalia sì che farla anche in inglese aiuterebbe); chi abbia provato ad avvertire chi sta alla cassa di un Museo Civico che sarebbe almeno il caso di dotarsi di apposito pos: chi lo abbia fatto, sa che forse contest e hashtag non sono il primo dei problemi da risolvere.

Parliamone. La Lorenzin s’inventa la campagna per il Fertility Day e ne vien fuori una roba da terzo mondo spinto. Renzi promette 500 eurini agli insegnanti e ne getta nel panico la maggior parte obbligandoli a dotarsi di una roba che si chiama Spid e non sanno bene cosa sia neppure quelli che lo dovrebbero rilasciare. Allora, smettiamola di fare storytelling e, come dicono i miei amici della Bassa padana, cominciamo a «fare i fatti». Sarebbe una rivoluzione che nemmeno Copernico.

Tre giorni dopo mi è però capitato di leggere sul «Corriere della Sera» un’intervista a Christian Greco, direttore dell’Egizio di Torino. Ecco uno che i fatti li fa, anche se per imparare ha dovuto studiare e pensare in neerlandese, ché da noi farebbe ancora il cultore della materia. Lui è uno che dice sereno: «Io credo ai musei come centri di ricerca, come agorà aperta». E lo sta davvero facendo, senza neanche menare il torrone con gli hashtag. Mentre aspettiamo che qualcuno a Roma scopra cos’è un Core i7 (speriamo che non sbandieri la rivelazione via tweet, ma ne compri un po’ per gli uffici dove non hanno ancora dismesso gli Olivetti M24 con i floppy da 5.25 pollici), riflettiamo sul fatto che qui quello davvero all’avanguardia è un egittologo.

Flaminio Gualdoni, 08 gennaio 2017 | © Riproduzione riservata

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