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Giorgio Guglielmino
Leggi i suoi articoliRicordo una cena con una giovane e agguerrita consulente d’arte contemporanea che spendeva cifre ragguardevoli per acquistare le opere «giuste» che i suoi collezionisti dovevano avere in casa (aveva appena comperato un Damien Hirst, nella fattispecie un cuore, vero, trafitto da un pugnale, il tutto dentro un blocco di resina trasparente). A un certo punto feci il nome di Richard Tuttle e lei, senza fare una piega, mi disse che no, non lo conosceva proprio. Come se le avessi citato un artista dilettante amico di famiglia dedito a ritrarre vasi di fiori e marine.
Mi auguro che per ampliare le sue conoscenze la giovane consulente abbia avuto occasione di andare a Londra in questo periodo a vedere l’enorme scultura di Richard Tuttle che fino al 6 aprile occuperà la Turbine Hall della Tate Modern.
La grande installazione si intitola «I don’t know. The weave of textile language» («Non so. La trama del linguaggio del tessuto»). Come anche in altre opere di Tuttle il titolo non solo non aiuta, ma anzi un po’ confonde lo spettatore. Una serie di sculture degli anni Ottanta s’intitolava «Two or more» («Due o più di due») e a leggere i titoli veniva da chiedersi quasi spazientiti «Ma insomma, sono due o sono di più?».
Nel caso dell’installazione appesa al soffitto della Tate Modern è soprattutto con quel «Non so» iniziale che un po’ spiazza. Se non lo sa l’artista che cosa vuol dire, come facciamo a saperlo noi? E invece è proprio qui il bello. Perché l’artista a volte non si rende conto di ciò che crea. D’altra parte se l’artista avesse la piena consapevolezza e il controllo totale sulle sue azioni produrrebbe in maniera razionale e non creativa. Quindi se osservando il lavoro di Richard Tuttle, affascinante, bello da vedere, allegro, coinvolgente, qualcuno vi chiederà «ma che cosa vuol dire?» rispondete serenamente «Non lo so, esattamente come l’artista».
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