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Scampati ai tedeschi

Laura Giuliani

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L’incredibile storia degli Ori di Taranto durante la seconda guerra mondiale

Famosi in tutto il mondo, gli straordinari Ori di Taranto, opera di altissima oreficeria ellenistica, furono sottratti alle ruberie consumate nei confronti del patrimonio culturale italiano durante la seconda guerra mondiale. Il 2 febbraio 1943 l’allora ispettore della Soprintendenza archeologica di Taranto, Valerio Cianfarani, li metteva personalmente al sicuro nei sotterranei blindati del Centro Contabile della Banca Commerciale Italiana a Parma, dove rimasero fino al 18 luglio 1945. 

A rivelare la clamorosa vicenda, fino a oggi rimasta sconosciuta, la piccola monografia (36 pagine) data alle stampe da Intesa Sanpaolo dal titolo “Salvi e intattissimi”. La Banca Commerciale Italiana e la protezione degli Ori di Taranto (1943-1945), a firma di Francesco Morra, storico e documentarista originario di Canosa di Puglia. Si tratta di un piccolo e interessantissimo scritto nato dalla passione dell’autore per la storia di Taranto durante la seconda guerra mondiale e dallo studio di alcuni documenti presenti nell’Archivio Centrale dello Stato. Le indagini di Morra sono poi proseguite nell’Archivio Storico della Banca Commerciale Italiana con l’esame di alcune carte non ancora inventariate e inedite restituendo uno spaccato del Paese tra il ’43 e il ’48. L’autore è così riuscito a ricostruire, tappa dopo tappa, il trasferimento e il salvataggio degli Ori. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale infatti, molte opere d’arte furono messe in salvo nei depositi fuori dalle città e lontani dai centri strategici militari. Inizialmente per gli Ori si era prospettato un nascondiglio all’interno di una cassetta di ferro murata nei caveau dello stesso Museo di Taranto.

Questa scelta però fu poi abbandonata con il precipitare della situazione e la conseguente decisione, su indicazione dell’allora ministro Giuseppe Bottai, di preservarli all’interno dei sotterranei della Banca Commerciale Italiana a Parma. Fu così che il 31 gennaio 1943 l’allora trentenne Cianfarani partiva in treno da Taranto alla volta di Parma con due cassette di legno. Al loro interno 222 oggetti preziosi (tra i quali anche gli Ori della principessa Opaka dalla tomba degli Ori di Canosa di Puglia), per un valore complessivo di 5 milioni di lire dell’epoca e con un premio assicurativo semestrale da parte della Banca pari a 1.400 lire.

All’indomani dell’armistizio con gli angloamericani (8 settembre 1943) e successivamente alla nascita della Repubblica Sociale Italiana (Rsi) sotto la guida di Mussolini, degli Ori di Taranto non si seppe più nulla tanto che dopo la liberazione di Roma (4 giugno 1944) il soprintendente di Taranto Ciro Drago preoccupato chiese notizie della loro sorte in una lettera destinata al Ministero della Pubblica Istruzione (Direzione Generale delle Arti), invitando anche il Vaticano a interessarsi della vicenda. Ebbe così inizio un intenso scambio epistolare tra la Direzione della Banca Commerciale e il Ministero dell’Educazione Nazionale della Rsi con sede a Padova: «I funzionari della Comit… misero in atto ogni pratica dilazionatoria possibile per evitare che gli Ori potessero arrivare nelle mani dei funzionari della RSI (e, conseguentemente, in quelle dei tedeschi) e riuscirono a riconsegnarli, “salvi e intattissimi”, nelle stesse mani di chi li aveva consegnati al caveau di Parma due anni prima», spiega Barbara Costa dell’Archivio Storico di Intesa San Paolo nella prefazione alla monografia. Fu proprio lui, Cianfarani, a dover tornare a Parma, incaricato, questa volta da solo, di ritirare le due cassette e rientrare a Roma. Ma il suo ritorno, scrive Morra, «si trasformò in una piccola odissea». Prima il viaggio da Parma a Bologna a bordo di una camionetta che trasportava soldati e partigiani incuriositi dal «misterioso» carico, poi, dopo il volo verso Ciampino, in aperta campagna su una carretta di verdure per raggiungere Termini.

Con Cianfarani arrivato a destinazione, gli Ori furono finalmente al sicuro venendo depositati nel Museo Nazionale Romano-Terme di Diocleziano fino al 1949, anno in cui poi rientrarono definitivamente nel Museo Nazionale Archeologico di Taranto. Il lavoro di Morra risulta encomiabile per molti aspetti: porta alla ribalta una vicenda riguardante uno dei tesori archeologici più importanti del patrimonio italiano, rendendo onore, come ricorda Barbara Costa, ai protagonisti della storia, meritevoli di aver contribuito alla salvaguardia e memoria del patrimonio artistico. E aggiunge: «Fra gli uomini che esercitarono senza troppo clamore un ruolo non secondario di salvatori culturali ci sono anche alcuni banchieri, che fin dal giugno 1940, misero a disposizione dei soprintendenti il rifugio sicuro per antonomasia, i caveau delle loro banche».

Senza poi dimenticare l’operato di alcuni personaggi straordinari del calibro di Valerio Cianfarani (Roma, 1912-77) per molti anni a capo della Soprintendenza alle antichità dell’Abruzzo e del Molise nonché membro nel 1943-44 dell’Unione Italiana delle Antichità e Belle Arti, organizzazione clandestina che reclutava i tecnici degli Istituti che ne facevano parte, al fine di proteggere il patrimonio artistico, bibliografico e archivistico dalle ruberie tedesche. A lui e alla sua collezione di fotografie Palazzo Braschi dedica fino al 28 febbraio la mostra «L’incanto della fotografia. Le collezioni Silvio Negro e Valerio Cianfarani al Museo di Roma».

Laura Giuliani, 07 novembre 2015 | © Riproduzione riservata

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