Rivedi Napoli e riallestisci

Una mostra a Capodimonte ripensa la pittura partenopea del Sei e Settecento e prelude a un accrochage aggiornato

«Sileno ebbro» (1626) di Jusepe de Ribera, Napoli,  Museo e Real Bosco di Capodimonte
Olga Scotto di Vettimo |  | Napoli

«Nato nel 1957 Capodimonte non è proprio un museo neonato ma, al confronto di altri, si può dire cominci solo ora a gattonare. Dopo il primo allestimento ordinato cronologicamente, e il secondo, di fine anni ’90, questo prova a raccontare la più importante pinacoteca a sud di Roma in modo un poco diverso e persino inedito, tra nuovi nessi e accoppiamenti giudiziosi e anche traumatici», dichiara Stefano Causa, cocuratore con Patrizia Piscitello di «Oltre Caravaggio. Nuove luci a Capodimonte. Il Seicento e Settecento» (dal 20 dicembre), una mostra, ideata dal direttore Sylvain Bellenger e che si presenta, piuttosto, come una proposta di un nuovo allestimento delle sale del secondo piano del Museo e Real Bosco di Capodimonte.

«Fortemente voluto da Sylvain Bellenger, che ha riportato Capodimonte al centro della vita culturale della città e non solo, questo primo segmento dell’allestimento è stato curato da me e da Patrizia Piscitello, storica d’arte ben attrezzata e tra le grandi registrar attive oggi in Europa. È anzi per la prima volta inscritta fin nella doppia curatela l’esigenza, e vorremmo dire l’urgenza, di considerare proprio quella del registrar tra i futuri sbocchi professionali del mestiere di storico d’arte e custode della memoria», commenta Stefano Causa.

L’esposizione intende sollecitare a ripensare alla pittura napoletana di quei secoli attraverso una narrazione che rompe le convenzionali distinzioni tipologiche e di genere per offrire una personale versione, attraverso impreviste contaminazioni. Rendendo visibile una trama di nessi, influenze e affinità, mescolando secoli e provenienze, collezioni permanenti a opere nei depositi. 

«Inventato» oltre un secolo fa da Roberto Longhi, il Seicento napoletano individua nel naturalismo di matrice caravaggesca la vocazione primaria dell’arte partenopea. Questa idea longhiana, ampiamente storicizzata ma parziale, viene riconsiderata dai curatori e se è vero che il percorso espositivo prende avvio dalla «Flagellazione» di Caravaggio, subito dopo il visitatore è invitato a calarsi nella realtà locale che accolse il maestro lombardo con ammirazione o diffidenza (Curia, Santa Fede, Teodoro d’Errico, Rodriguez per citarne alcuni). Non solo Caravaggio e caravaggeschi, dunque.

La mostra, perciò, dà massima evidenza a Giovanni Lanfranco (Parma, 1582-Roma, 1647), figura cruciale nel contesto vicereale del secondo quarto del secolo: l’attivazione dinamica dei piani sequenza della pittura caravaggesca dipende infatti dalle pale d’altare del pittore parmigiano. E in rapporto alle opere napoletane del Lanfranco vanno letti anche i dipinti maturi di Battistello Caracciolo (Napoli, 1578-1635), quanto di più simile a un allievo che Caravaggio ebbe mai. Sulla scena artistica vicereale degli anni ’20, inoltre, è difficilmente sopravvalutabile il peso di Jusepe de Ribera (Játiva, 1591-Napoli, 1652), al punto, come sostengono i curatori, da poter considerare il Seicento napoletano come il secolo di Ribera e non di Caravaggio.

In questo nuovo allestimento del secondo piano, che succede a quelli del 1957 e a quello della fine del secolo scorso (a riprova che i musei crescono e mutano pelle nel tempo), rientrano diversi capolavori giacenti nei depositi, a cominciare dall’«Adorazione dei Pastori» del Sassoferrato, una delle chiavi di volta del purismo napoletano. Secondo la consuetudine espositiva delle antiche collezioni patrizie, le nature morte sono ora aggregate ai dipinti sacri e di tema mitologico.

In mostra anche il Settecento, mai facile da esporre. Per evitare che paia un codicillo minore, i curatori hanno scelto di collocare al primo piano i ritratti borbonici oltre ai capitoli salienti delle raccolte settecentesche: da Giaquinto a Domenico Antonio Vaccaro. Fa eccezione Gaspare Traversi (Napoli, 1722-Roma, 1770), pittore di pieno Settecento, che si è deciso di interpolare alle opere seicentesche: d’altronde già Longhi, suo massimo sponsor, lo considerava un caravaggesco capitato nel secolo sbagliato.

Il percorso si chiude con un tesoretto della civiltà meridionale ottocentesca: «Gli iconoclasti» di Domenico Morelli, presentato alla mostra borbonica del 1855, quella sorta di zoo in movimento che è «Dopo il Diluvio» di Filippo Palizzi (1863) e «La carica dei Bersaglieri» dipinta da Michele Cammarano, telecamera in spalla, nel 1871 (i fratelli Lumière sarebbero arrivati un quarto di secolo dopo...). I due quadri di Morelli e Cammarano, ripensando il naturalismo sei-settecentesco derivante dal Caravaggio e soprattutto da Ribera, chiudono il percorso di visita e rappresentano gli ultimi momenti di caravaggismo moderno della nostra civiltà. Una tradizione dura a morire e che farà sentire il suo peso fin dentro il Novecento.

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