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Michela Moro
Leggi i suoi articoliBanca-arte è un binomio imprescindibile nel panorama culturale italiano. Le istituzioni bancarie garantiscono la vivacità a un campo che dal punto di vista economico languirebbe senza speranza, facendosi motore di progetti e operazioni altrimenti impensabili. Uno degli esempi più virtuosi è «Restituzioni», un programma di Intesa Sanpaolo per la salvaguardia e la tutela del patrimonio artistico italiano.
Da 27 anni la Banca è impegnata nel restauro di opere d’arte appartenenti a musei, siti archeologici e chiese di tutta Italia. Il risultato si traduce in una mostra pubblica biennale. Quest’anno le Gallerie d’Italia sono invase da 145 manufatti provenienti da tredici regioni italiane, raggruppati in 54 nuclei di opere d’arte. Responsabile della curatela scientifica insieme con Giorgio Bonsanti è lo storico dell’arte Carlo Bertelli, già soprintendente di Brera, che ha risposto alle nostre domande.
Come avviene il reperimento delle opere da restaurare? Non solo grandi capolavori ma anche opere minori, molto diverse tra loro sia in termini cronologici sia per materiali e tecniche.
È insita in «Restituzioni» la volontà di recuperare opere che rappresentino la varietà del patrimonio storico-artistico italiano, le segnalazioni ci arrivano dalle Soprintendenze che le raccolgono sul territorio, le studiamo e poi si decide.
Com’è cambiata la vostra missione in questi anni?
Si è ampliato enormemente il campo d’azione, guardiamo veramente a tutte le regioni; quest’anno sono stati inclusi tre rilievi lignei provenienti dalla Slovacchia. Si viaggia, si seguono i restauri passo a passo, ad esempio sono stato spesso a Reggio Calabria per il grande Cavaliere di Marafioti, statua in terracotta del V secolo a.C. rinvenuta in frantumi dall’archeologo Paolo Orsi nel 1911.
L’approccio alle opere è diverso rispetto ad anni fa?
Sicuramente. Bisogna affrontare restauri di 10, 15 anni fa, il deperimento si accelera, ci sono opere del ’900 difficilissime da restaurare perché non si può procedere con i protocolli tradizionali, i lavori sono dettati dai materiali utilizzati. Un esempio: il dipinto di Carlo Carrà «Madre e figlio» del 1917 era stato addirittura passato da tela a tela, chi se lo aspettava? Ci sono sempre scoperte incredibili. Questa esposizione riassume bene le conclusioni scientifiche dei restauri e le portano a conoscenza del grande pubblico.
Sono cambiate anche le tecniche di restauro?
Le tecniche d’ispezione unite alla ricerca hanno fatto passi straordinari. I sistemi laser permettono di imparare tutto sui bronzi (li abbiamo usati per guardare la testa dell’imperatore Antonino Pio), sono cambiate le precauzioni di conservazione e i modi di vedere il restauro. Sempre parlando del Cavaliere di Marafioti il problema era che cosa fare di un grande restauro: si è deciso di restaurare il restauro. In altri casi, vedi l’affresco della Chiesa di San Pietro all’Olmo a Cornaredo, abbiamo l’affresco senza sapere com’erano le pareti su cui poggiava, una vera avventura. Per l’armatura giapponese di Torino della metà del XVII secolo sono state impiegate le tecniche e le conoscenze più diverse: acciaio, oro, lacca, cuoio, pelle e seta sono stati restaurati da persone diverse, ognuna con differente specializzazione. Le opere ci raccontano molto della storia dei luoghi: il mosaico con i pugili della seconda metà del I secolo a.C. di Ravenna spiega un capitolo importante per la città, la sfida per l’acqua e l’acquedotto di Teodorico.
Quali riflessioni stimola una simile operazione?
La conservazione mette in luce un problema europeo. Contro la distruzione sistematica che sta avvenendo in certe parti del mondo, bisogna costruire un presidio europeo per un’azione energica di salvaguardia della nostra civiltà. Copriamo meno le nostre statue e affermiamo il nostro status culturale dichiarando che le abbiamo. L’attenzione con cui il pubblico segue i restauri mostra che queste opere sono vive e non devono morire. Il mondo è cambiato. Non essendoci continuità col passato bisogna guardarlo per ricucire le nostre origini.
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