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Relitto perfetto

Sfingi e Mazinga, Buddha e Topolino emergono da un immaginario e antico naufragio: nelle due sedi della Fondazione Pinault, Damien Hirst, dopo dieci anni di silenzio e di quotazioni in calo, si riporta prepotentemente a galla con una mostra spettacolare e un’operazione di mercato tanto geniale quanto spericolata

Il vascello «Apistos», greco per «Incredibile», carico d’inestimabili tesori e di proprietà di Cif Amotan II, liberto di Antiochia vissuto tra il I e il II secolo d.C., naufragò sulle coste dell’Africa sud-orientale, forse per il peso del preziosissimo contenuto, e rimase protetto dall’Oceano Indiano per duemila anni, fino al 2008, quando un collezionista decise di finanziarne il recupero. Sono così riemersi dalle profondità marine gigantesche sculture, manufatti, monete, gioielli e oggetti preziosi, animali e opere leggendarie, testimonianze di civiltà lontane che avevano stimolato nei secoli la fantasia di molti, e a ragione: dagli abissi sono apparsi reperti greci, romani e Maya, lo scudo di Achille e la Medusa, teste di faraoni e di ciclopi, Sfingi e Buddha, unicorni, Cerberi ed elefanti cinesi, fino a preveggenti intuizioni del futuro, come un Mazinga d’oro massiccio e Pippo e Topolino riconoscibili sotto le incrostazioni. Il mare aveva lasciato su tutto le sue tracce indelebili fatte di coralli, spugne, gorgonie e conchiglie; dopo il lento lavoro di restauro e pulitura sono state catalogate tre tipologie d’oggetti: il «corallo», reperto ancora incrostato dal mare; il «tesoro», restaurato dai conservatori; la «copia» che riproduce perfettamente l’oggetto. Questa è l’epopea che il direttore Martin Bethenod e la curatrice Elena Geuna raccontano con convinzione degna di una performance a Palazzo Grassi e Punta della Dogana, avallati da enormi fotografie in lightbox e video che documentano il recupero delle meraviglie dal profondo del mare.
 
Fino al 3 dicembre, il cortile di Palazzo Grassi è interamente occupato dal nero demone con una ciotola, alto 18 metri; Punta della Dogana ospita Hydra e Kali combattenti, alte sei metri, e un’intera sezione di numismatica e reperti degna del Museo de Oro di Bogotà, mentre una preziosissima Medusa di cristallo di rocca troneggia solitaria nella sala a prua. Ne manca uno soltanto, tra gli animali mitologici in mostra per «Treasures from the Wreck of the Unbelievable»: l’araba fenice, perché è lui l’araba fenice, Damien Hirst, nato a Bristol nel 1965, l’artefice di questa mostra perfetta per l’epoca della post verità, perché nessuno come lui ha sempre stravolto le regole del gioco, proponendo prospettive diverse e più estreme; perfino il titolo sembra riassumere la sua carriera: «Treasures/Tesori» (le sue opere sono tra le più pagate sul mercato); Wreck/Relitto (perché l’artista è stato spesso dato per finito), Unbelievable/Incredibile (perché Hirst ha fatto cose che parevano impossibili, come mettere all’asta da Sotheby’s i propri lavori e incassare 130 milioni di euro il giorno del crollo di Lehman Brothers nel 2008).


Questo è un ambiziosissimo progetto curato maniacalmente nei minimi dettagli, che ha occupato l’artista inglese negli ultimi dieci anni, affiancato dal mecenate e padrone di casa François Pinault, che ha messo a disposizione di Hirst i 5mila metri quadrati delle sue sedi veneziane, lasciando che venissero popolati da 190 opere che stanno dividendo e fanno discutere, mentre sono già oggetto del desiderio dei collezionisti che possono permettersi di spendere tra i 500mila e i 5 milioni di dollari. L’intera operazione pare sia costata intorno ai 60 milioni di dollari, divisi, si dice, tra Hirst, Pinault, e i supergalleristi Larry Gagosian e Jay Jopling. Gli interessati, dal canto loro, si limitano a far sapere che c’è stata un’ottima risposta alle vendite. Hirst, araba fenice audace, irridente e ironica, ambigua e profonda, con questa mostra dallo storytelling totale cambierà l’attitudine nel visitare mostre e musei, non si sa se in meglio o in peggio, e anche la sorte dei parchi tematici, sui quali aumenteranno le aspettative. D’ora in poi si vorrà sempre una «storia», una narrazione che governerà il percorso in musei e gallerie? Bisognerà pensare alle mostre come un unicum, sul modello degli Lp degli anni Settanta? La commistione tra arte e scenografia non è una novità per chi ci ha abituato a opere imponenti con squali in formaldeide e mucche coperte di mosche, a monumentali sculture di donne incinte come «Verity», 20 metri di bronzo con teschio, muscoli e feto in bella vista, e «For the Love of God», il teschio tempestato di diamanti (e anche a bruttissimi dipinti); del resto la sua Newport Street Gallery a Londra, dove espone parte della propria collezione alternandola a mostre di altri artisti, in epoca vittoriana altro non era se non una serie di studi dove venivano dipinte le scenografie teatrali.


Le sue sculture dozzinali, come le ha definite il critico Jerry Saltz, possono sì decorare la dimora di Trump Mar-a-Lago e rivalutare il re delle animazioni di mostri da cinema Ray Harryhausen (1920-2013), ma mescolando abilmente le carte, tra resine, vetro, alluminio, Mdf laccato, silicone, luci a led, acciaio inossidabile, col valore aggiunto di malachite, giada, lapislazzuli, oro, argento, marmi e graniti, Hirst costringe il visitatore ad andare oltre Gardaland e a porsi domande sui temi che lo interessano da sempre: arte, scienza, vita, morte, religione, possesso, ricchezza, bellezza, incertezza e volatilità dell’esistenza. Hirst in questo non ha mai mollato, ribadendo l’unicità del suo lavoro e il suo profondo amore per l’arte, che si dispiega con forza anche quando a Venezia ci propone la coppia di schiavi legati sì per l’esecuzione ma già crivellata, in quanto statua, da colpi di improbabili fucili, o la candida bellezza contemporanea di Tadukheba dagli occhi di smeraldo, consorte dei faraoni Amenhotep III e Akhenaten; potrebbe aver ragione Simon Schama, professore di storia e storia dell’arte presso la Columbia University di New York, quando nel catalogo scrive che «l’arte, come la vita, si trova da qualche parte tra un caso fortuito che aspetta di accadere e una burla ancora da svelare».

Michela Moro, 08 maggio 2017 | © Riproduzione riservata

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