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Studenti in un'accademia d'arte

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Qualcosa sta accadendo in Danimarca

Luca Cesari recensisce il libro di Antonio Bisaccia sulla riforma dell’alta formazione artistica

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Redazione GDA

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Vi sono due modi di sollevare il «giogo accidioso» che blocca da 25 anni il settore dell’Alta Formazione artistica in Italia e perciò di avvertire il saggio profondamente sentito, calato in un presente attivo e generatore, che Antonio Bisaccia ha dato alle stampe per i tipi di Castelvecchi (Burocrazzismo e arte, 2020). Un saggio che è poi un rapporto sulla stessa, ma che non vuol essere outré al solito modo, bensì vuol prodursi nel campo più ampio di una visione «attuale» dell’Alta Formazione artistica musicale coreutica in Italia en face d’aujourd’hui.

Vi sono due modi dunque: o retrospettivo o prospettivo. Detto e ripetuto tutto quello che va riaffermato circa lo stato d’«indifferenza istituzionale più somma», «che ha generato oltre vent’anni di dense doglianze e deplezioni di senso nei confronti di questo settore», si aprono due strade. O quella dello «sdegno» o quella del «coraggio». La prima è stata percorsa con onore dai predecessori e non manca di esercitare un largo influsso anche sulla rappresentazione di Bisaccia (a cominciare dal titolo).

Limitarsi tuttavia a questa rappresentazione, penalizzerebbe di troppo i segni del tempo, riducendo tutto in fatto risaputo e in condanna dell’«autonomia solo nominale» o «cosmetica».

Nella prima strada si colloca con onore il libro di Caramel e di Poli (L’arte bella – La questione delle Accademie di Belle Arti in Italia, 1979), non senza anelito di redenzione e una visione rilevante, potenzialmente prospettiva, ma come annerita dal riflesso di uno specchio inviluppato nel momento storico.

Di quel tempo tocca ricostruire l’esatto perimetro entro cui inquadrare il dato di isolamento estremo: quando le accademie apparivano il monolitico «corpo separato dal contesto della scuola di ogni ordine e grado». E tocca citare l’incertezza sul conto delle regole che andavano cambiate, acuita dalla rivalità rispetto a come andavano cambiate e dal riconoscimento assoluto (e a un tempo più elevato) delle accademie come università.

Non per nulla si sono viste schierare posizioni discrepanti sul tema, allorché il Centro internazionale «Pio Manzù» pubblicava, su commissione del Ministero della Pubblica Istruzione una ricerca (La ristrutturazione delle Accademie di Belle Arti in Italia, 1979) che avallava, in termini culturali, il funerale arganiano alla vecchia accademia; mentre risollevava l’ideale neo-costruttivista della scuola di Ulm, teorizzando il conseguente riordino sul modello di un «Istituto superiore per l’industria artistica» desunto dal lievito mentale di Argan e di Ulm.

Da allora, va detto onestamente, la situazione è catapultata all’oggi priva di similarità, perché il processo di inserimento senza riserve delle accademie nella formazione universitaria ha ritrovato la sua patria e la via perduta dopo lo sbandamento (in questa e in altre sedi) di Argan, e l’ubriacatura pan-progettista dimostratasi una via senza ritorno.

Dall’epoca di Misasi (allora ministro della Pubblica Istruzione) a quella di Manfredi, anche se con la lettera «M» incominciano entrambi i cognomi, tante macro- e micro-differenze impediscono di allineare le indagini ora evocate con le variazioni «qui e ora» argomentate da Bisaccia.

Nell’andare e venire dei due influssi, «rassegnazione» e «istanze combattive» si controbilanciano. Se talvolta la prima trascina dietro di sé strascichi per la ricorrenza «degli innumerevoli disegni di legge che si sono inesorabilmente persi per strada», per le «stoltezze leguleie», la «missione articida», l’«insopportabile mercimonio delle promesse declinate solo al futuro», talaltra le seconde spiccano e s’impongono prevalendo sull’impostazione negativa.

Chi legga i capitoli del libro secondo questo andare e venire, scorgerà, nel diverso susseguirsi, un rapporto di stati che non nascondono la passione sotterranea per lo «sdegno», tante quante sono le occasioni vivaci per farvi ritorno in un settore che a tutti pare inchiodato a una perpetua ruota di Issione. Così prendono posto i reclami per le inottemperanze e forse anche le «imperizie delle normative di settore» che han reso la Legge 508 / 99 (introdotta per «colmare il gap storico tra Alta Formazione e Università»), un «vuoto contenitore, mai riempito»… Ma in posizione congiunta si destano le «istanze combattive», situandosi in una disposizione fertile: in «azione concreta pregna di contagio».

Così d’un tratto, nel susseguirsi di un capitolo all’altro, si ha l’impressione che la storia dell’Afam si vada riscrivendo, che nell’azione volti pagina. L’argomento da refertare è ora il «divenire»: non tutto dalla parte dello «sdegno», non tutto dalla parte della vibrazione d’«entusiasmo», ma con un’attestata preferenza per lo zelo del «coraggio». A un dipresso infatti dalla storia della «pseudo-riforma glamour», della fallata Legge 508, e dalla delicatissima incertezza di vivere che ne è derivata, se ne racconta un’altra che ha luogo in questo periodo: narrata con moderata enfasi, comunque con una certa fiducia nei «segnali in corso», a significare un palpabile divario, una certa differenza accretiva nell’ottenimento di cui si ha bisogno.

Lo «sdegno» inconciliato col «coraggio» è un frutto nero paralizzato. Lo «sdegno» – scrive Bisaccia – è «il violento motore a scoppio della coscienza» che, per non consumarsi in sé stesso, deve darsi in congiunzione con un’altra forma trasformatrice, la «perseveranza». La primitiva istanza energica (lo «sdegno») può esser sconfitta, perché cade spesso, purtroppo, per eccesso d’intransigenza, in affinità o in polarità con la «rinuncia», come dimostra la figura dell’«Arcirassegnato» tratteggiato da Canetti (colui che si adatta al proprio destino, per il quale non è possibile dire «no» all’ineluttabile e al quale dice «sì» prima ancora che si presenti, una sorta di amor di fato nicciano ribaltato, ma gli estremi si toccano). Contrapposta alla sua linea di condotta che, per una serie di polarità contrarie, racconta le vicende sconfitte del solo «sdegno», Bisaccia evoca una figura reagente al puro indignato (o Arcirassegnato): quella del Creativo di Rodari che si trasforma in costante segno di trasferimento del «motore a scoppio» in «speranza».

Rodari rappresenta l’acume, la curiosità, l’idea dell’uomo vivo a tutto tondo, il segno d’oro di uno spirito che protrae l’età del bambino. Sorta di Angelo custode della Fantasia per Bisaccia – che pure è uomo delle «istituzioni» – come ricorda Dario Giugliano (Riformare o sovvertire le arti? «Operaviva», 31 dicembre 2020) – non stupisce che al pedagogista sia affidata la prima e l’ultima parola del libro. Invero esso è per l’autore come l’«aiutante fatato» nelle favole di Propp, lo spirito protettore che troverà sempre la via per inventare la vita e per tornare alla vita.

E sarà per l’appunto l’esigenza di cogliere una siffatta e creativa tendenza all’aller de l’avant (che non può non essere del bambino e di Rodari), a situare diversamente le riflessioni bisacciane sull’Afam, tra «sdegno» e «coraggio».

Non per la massiccia quantità di dati freschi, colti da poco; ma per un anelito a misurare il crescere piuttosto che il marcire «nelle maglie della storica burocrazia che ha connotato, da almeno vent’anni, la gestione dell’alta formazione artistica, musicale, coreutica».
La situazione infatti sulla quale decide di riferire è l’accadere o per meglio dire il «divenire», non tanto il divenuto nelle accademie di belle arti. S’indugia sui «mores» del passato, come detto, ma nello stesso tempo si è tutti presi dal loro cambiare, dallo scorrere che sta intervenendo sotto i nostri occhi, si sta scrivendo di giorno in giorno, attraverso una «disposizione al dialogo che testimonia il grado più alto di attenzione» ricevuto dalle AFAM sino a oggi.

In ciò riposa il «moderato ottimismo»: in un processo che scorre senza salti, in una filiera graduale di «novità»; e da qui l’affermazione del «primato del fare» (frequenti sono le espressioni «disposizione responsabile», «disposizione propositiva», «rimboccarsi le maniche». Insomma, non un cahier de doléances (o non solamente questo), non solo un cronico j’accuse biasimando le azioni di ritorno, indicando l’«autonomia rapsodica», l’«ascolto retorico» in vicarianza di «atti concreti e tangibili» nei riguardi degli «storici problemi» dell’Alta Formazione, verso la quale il legislatore sembra attenersi al ruolo che le scienze, secondo Durand, attribuiscono all’immaginazione entro le nostre facoltà. Il ruolo tollerato della «pazza» di casa o di famiglia.

A parte la polivalenza della follia, che i greci veneravano come matrice della «conoscenza», e ammesso con Antonio Damasio che anche «la ragione purissima non altro che una forma di follia», torna alla mente ciò che il savio millenario I Ching scrive: «Grande invero è la forza primordiale del creativo, tutti gli esseri devono a lui il loro inizio». Si tratta del fanciullo di spirito contrapposto al vecchio di corpo. In altre parole Rodari versus Canetti. Ecco la scelta di campo. Il mondo salvato dai ragazzini piuttosto che La storia, per citare altre opere non meno archetipe e profetiche. La Fantasia infatti è una condizione simile alla «speranza».

Nell’agevole oscillare fra sentimento fiducioso e prudente refertaggio dei «segnali in corso», qualcosa suggerisce che vi sono segni di speranza? Dunque, non tutto è guasto (rotten) in Danimarca?

La Danimarca di Bisaccia – «marcia» secondo la versione amletiana di Montale, appena più «putrida» nella traduzione di Praz («V’è qualcosa di putrido nello stato di Danimarca» I, IV), è qui rappresentata dal regno di Burocrazia. Perché la burocrazia, come si legge in una delle più belle frasi riportate in questo testo «è contro tutte le cose di cui si occupa la vita». Non si tratta solo di fuochi di Sant’Elmo, ma di una svolta riformistica. Lo squarcio che si decide di illuminare è in fondo molto breve, si contrae su un arco molto rapido: corre dagli «Stati Generali dell’AFAM» l’8 e 9 febbraio 2019 – che «sono serviti per mettere in fila tutte le doglianze e anche le prospettive» – al neo-istituito «Tavolo Permanente AFAM»: vero «incipit» di una «volontà d’azione normativa» risultante, frattanto, dagli effetti della Legge di bilancio 2021 con i quali si è già oltre il tempo reale refertato.

Escludendo l’ottica del nunc stans infatti, che trapassa nel «non cambia niente», e adottando quella dell’evoluzione, è logico che lo sforzo dell’autore accetti di essere dépassés par le temps,per una parte almeno della sua fatica.

Come noto, non è plausibile immergersi nella stessa corrente per due volte. Anzi, per un eleate ancor più radicale, Cratilo, neanche una volta sola: perché l’acqua che tocca la punta del piede è diversa da quella che bagna il tallone. Basti per ora sottolineare, seguendo la logica di questo singolare libro a «cronoprogramma», che tutto, o buona parte di quanto raccomandato per una giurisprudenza dell’Alta Formazione nella prima parte (§ 0.3 Triage rifondativo), è stato recepito divenendo Legge di bilancio (§ 15.5 Il principio di Pareto) nella seconda. Un libro, in definitiva, contro il «declinismo» che investe sia l’apocalittismo oggettivo o soggettivo determinato dallo stato di Burocrazia, sia l’Amletocrazia indotta dall’incertezza e dai fantasmi che avvolgono lo spirito di esistenza nelle istituzioni Afam. In ogni modo, una buona attitudine alla speranza sotto il segno di Rodari e non della Danimarca, né di Amleto (che è l’Arcirassegnato per antonomasia), attiva prontamente l’interesse verso il libro, riabilitando persino un poco il demonio che combatte: distinguendo, al modo dei medici, tra buono e cattivo colesterolo, tra la burocrazia positiva e la gran serqua della burocrazia cattiva o nociva.

L'autore è direttore dell'Accademia di Belle Arti di Urbino

Studenti in un'accademia d'arte

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Gillo Dorfles «Il fustigatore» (2007, particolare)

Redazione GDA, 31 gennaio 2021 | © Riproduzione riservata

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