Prima il terremoto, poi i saccheggi tedeschi, ora riapre il Museo Archeologico Oliveriano

Apre a Pesaro con una nuova veste espositiva incentrata su quattro nuclei cronologico-tematici: la necropoli dell’Età del Ferro di Novilara; il Lucus Pisaurensis; la colonia romana di Pisaurum; le collezioni settecentesche di Giovan Battista Passeri e Annibale degli Abati Olivieri

Una delle sale del Museo Archeologico Oliveriano
Elena Franzoia |  | Pesaro

Apre il 13 dicembre il Museo Archeologico Oliveriano con una nuova veste espositiva incentrata su quattro nuclei cronologico-tematici: la necropoli dell’Età del Ferro di Novilara; il Lucus Pisaurensis; la colonia romana di Pisaurum; le collezioni settecentesche di Giovan Battista Passeri e Annibale degli Abati Olivieri. Tra gli oggetti più rari e significativi spicca l’anemoscopio romano del II secolo d.C. utilizzato per le osservazioni astronomiche.

I finanziamenti si devono al Comune (che ha contribuito con 3 milioni di fondi PinQua, cui si sono aggiunti 4,5 milioni del Bando Nazionale Rigenerazione Urbana) e al MiC (150mila euro), affiancati dall’Ufficio Cultura del Governo svizzero (circa 85mila euro) e dalla Fondazione Scavolini. Il museo, accolto dal 1892 dal settecentesco Palazzo Americi, è stato oggetto di un importante intervento di restauro e riallestimento curato dall’architetto Simone Capra e dal suo studio romano STARTT.

«La genesi della collezione testimonia la nascita dell’archeologia come branca del collezionismo e dell’antiquariato e la sua successiva trasformazione in disciplina scientifica, precisa la curatrice del progetto scientifico Chiara Delpino, archeologa e funzionaria del MiC. Il Museo nacque insieme alla Biblioteca nel 1756 a Palazzo Olivieri, grazie alla donazione testamentaria di Annibale degli Abati Olivieri cui grazie a un lascito si aggiunsero nel 1787 altri volumi e reperti collezionati, oltre che da lui, dal suo amico Giovan Battista Passeri. Nel tempo sono poi giunte le collezioni epigrafiche civiche e reperti di proprietà statale provenienti dagli scavi condotti sul territorio. Il nostro lavoro è consistito nel raccontare questa storia non solo ridisegnando i supporti dei reperti, ma soprattutto costruendo un rimando percettivo tra le opere e il territorio-paesaggio cui appartengono».

Le collezioni subirono le conseguenze del terremoto del 1916 e della seconda guerra mondiale, quando i soldati tedeschi trafugarono alcuni dei reperti più importanti. «Nonostante il lodevole lavoro di inventario compiuto negli anni ’50 da Laura Fabbrini, il museo fu riaperto negli anni ’60 senza criteri scientifici o apparati didascalici, conclude Delpino. Dato che l’allestimento non era storicizzato siamo quindi potuti intervenire liberamente, risolvendo il grosso e annoso problema dell’umidità di risalita che mi aveva portato già nel 2013, quando ero in servizio presso la Soprintendenza delle Marche, a chiedere finanziamenti al Ministero» (nella foto, una delle sale del museo).

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