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Perdersi a guardare

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Mimmo Jodice celebrato dalla sua città

Se si dovesse indicare l’artista napoletano più significativo della seconda metà del XX secolo e dei primi anni del Duemila, forse non si dovrebbe cercare tra i pur bravi pittori, scultori, videomaker cui il capoluogo partenopeo ha dato i natali, ma si dovrebbe nominare un fotografo, quel Mimmo Jodice qui nato nel 1934 e ancora oggi pienamente attivo, alla ricerca delle sue immagini di silenzioso, metafisico stupore. A Napoli Jodice ha mosso i suoi primi passi fotografici nella seconda metà degli anni Sessanta, documentando la felice stagione delle neoavanguardie, presentate e sostenute da personaggi ormai leggendari come Lucio Amelio e Pasquale Trisorio, divenendo subito un testimone prezioso di quel clima. Ma in quegli stessi anni il giovane fotografo si misurava anche con il linguaggio fotografico, lo forzava in chiave riflessiva e concettuale, dando vita alla sua prima stagione creativa, che aprirà la grande mostra a cura di Andrea Viliani che il Madre gli dedicherà dalla tarda primavera, presentando quarant’anni di lavoro attraverso circa duecento fotografie (catalogo Electa).

Da quella stagione sperimentale, tanto poco vista in pubblico quanto amata dall’autore, la mostra procede verso il decennio Settanta, nel quale Jodice ha per così dire accompagnato con le sue immagini una stagione di rivolte e di speranze: presentate sotto forma di proiezione, le immagini di quegli anni raccontano il dramma e il fermento di una città, ma anche la capacità del fotografo di trasformare il fatto quotidiano, l’emozione momentanea, in una visione universale, grazie a una straordinaria sensibilità compositiva, affinata per anni sui testi dei grandi maestri della pittura antica e moderna. La mostra si dipana poi lungo tre direzioni principali, corrispondenti ad altrettanti nuclei tematici frequentati con costanza dall’artista: il Mediterraneo, le città e il ciclo più recente, definito da Jodice stesso come quello dell’attesa.

Le fotografie scattate nell’area geografica e soprattutto culturale del Mare Nostrum sono forse le più celebri, quelle che hanno dato a Jodice anche la fama internazionale: sono le immagini nelle quali riprende vita una civiltà altissima, dove luoghi, sculture, edifici parlano realmente come nostri antenati e nostri compagni di viaggio, insieme lontanissimi e vicinissimi. È il tempo della memoria, così come quello delle città è il tempo del presente, di una contemporaneità vissuta sempre come tappa di un cammino che comunque ha le sue radici, ancora visibili, nel passato.

Parigi, Roma, Boston, sono da un lato chiaramente individuate nelle loro caratteristiche primarie, dall’altro finiscono per essere trasformate da un occhio che guarda all’esterno per comprendere l’interno, che in ogni piazza sembra cercare, e trovare, la magia delle piazze dipinte da de Chirico agli inizi del Novecento. È un senso di sospensione temporale che diviene autentico fulcro di poetica nell’ultima serie della mostra, alla quale Jodice sta ancora lavorando, una ricerca sul vuoto, sull’attesa dell’immagine, rappresentata emblematicamente da una sedia affacciata solitaria sul mare, sulla quale e attraverso la quale «perdersi a guardare», secondo una massima di Fernando Pessoa particolarmente cara all’artista napoletano.

A completare l’esposizione, due sale presentano il ciclo «Eden», allucinata riflessione sul tema della natura morta contemporanea, e la serie dedicata ai gesti e ai volti della pittura barocca, che sono stati una tappa fondamentale nell’evoluzione della fotografia di Jodice, un dialogo tra pittura e fotografia che ha avuto il suo culmine nel 2011 nella splendida installazione «Les yeux du Louvre». 

Redazione GDA, 14 marzo 2016 | © Riproduzione riservata

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