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Lisetta Carmi, «I travestiti», 1965-71, Genova

© Lisetta Carmi - Martini & Ronchetti

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Lisetta Carmi, «I travestiti», 1965-71, Genova

© Lisetta Carmi - Martini & Ronchetti

A Torino Gallerie d’Italia è casa della fotografia

Il 16 maggio 2022 fu inaugurata in Piazza San Carlo la sede subalpina del museo di Intesa Sanpaolo. Più che un progetto una missione culturale e un investimento a 360 gradi: valorizzare, studiare e fare conoscere i nostri grandi autori dal secondo Novecento a inizio nuovo millennio

Walter Guadagnini

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Sono passati tre anni da quando Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo apriva la sua nuova sede torinese, interamente dedicata alla fotografia. Una scelta significativa, che andava da un lato a confermare la volontà di ampliare ulteriormente la proposta culturale, e specificamente artistica, dell’Istituto bancario, dall’altro andava ad aggiungere un tassello particolarmente importante alla sua rete espositiva attraverso la scelta di uno specifico ambito disciplinare, quello della fotografia. Opzione non scontata nel nostro Paese, che proprio di una cronica carenza di spazi istituzionali dedicati alla fotografia ha sempre sofferto, sia in termini di riconoscimento interno sia in termini di possibilità di dialogo con le realtà attive in questo settore all’estero. Uno spazio, quello di piazza San Carlo nel cuore del capoluogo piemontese, che nel corso del triennio ha rapidamente costruito e affermato la sua identità attorno a tre nuclei portanti: lo studio e la valorizzazione dell’enorme Archivio Publifoto, nucleo originario dell’impegno di Intesa Sanpaolo sulla fotografia, tutelato e valorizzato attraverso azioni di conservazione e di divulgazione che hanno iniziato a manifestarne le potenzialità anche in termini espositivi e concettuali; la presentazione dell’opera di maestri della fotografia contemporanea internazionale in grandi mostre per lo più legate alle tematiche relative all’ambiente e al sociale, dal forte impatto anche spettacolare; la realizzazione di un ciclo di esposizioni specificamente dedicate ai protagonisti della fotografia italiana attivi dagli anni Sessanta a oggi. Se è facile, e auspicabile, che la linea operativa rimanga questa, considerato anche il positivo riscontro in termini di pubblico e di critica, è possibile anche tracciare un primo bilancio di queste attività: a questo proposito, «Il Giornale dell’Arte» ha chiesto a Roberto Koch, ideatore e curatore della serie incentrata sulla fotografia italiana, di raccontare ai lettori ragioni, risultati e prospettive di questo specifico segmento dell’attività di Gallerie d’Italia a Torino.

La prima domanda è d’obbligo: da che cosa è nata la volontà di dedicare un intero ciclo di mostre ai protagonisti della fotografia italiana della seconda metà del Novecento e dei primi anni del nuovo secolo?
Il progetto nasce sostanzialmente da un desiderio, che a sua volta deriva da una riflessione sul lavoro che ho svolto nel corso di tanti anni in questo settore. Nella mia attività di organizzatore di mostre e di editore di volumi fotografici, nonché in quella di curatore e gestore di importanti archivi fotografici come quello di Gianni Berengo Gardin, mi sono sempre impegnato per il riconoscimento dei protagonisti della fotografia italiana, a mio parere spesso ingiustamente sottostimati, di sicuro sul piano internazionale, ma anche, paradossalmente, su quello nazionale. Ecco, quando ho saputo che Gallerie d’Italia avrebbe aperto uno spazio dedicato interamente alla fotografia, ho pensato che si trattasse del luogo ideale per dare vita a un’attività di valorizzazione della fotografia italiana, che avesse un carattere organico e non estemporaneo. Era, ed è, il desiderio di aprire una finestra su un panorama a mio avviso non ancora sufficientemente conosciuto, e che poteva trovare un’adeguata cassa di risonanza grazie all’importanza di un attore come Intesa Sanpaolo, capace di investire in progetti a lungo termine e di sostenerli da ogni punto di vista. Per me si tratta di un primo gesto, dell’apertura di un percorso, poi naturalmente si potranno fare altre cose. 

Veniamo alle mostre, come è stato concepito il programma, quali le tappe e quali le caratteristiche particolari? 
Ho cercato di sviluppare la proposta a partire da due grandi maestri come Lisetta Carmi e Mimmo Jodice per poi presentare autori appartenenti a una generazione successiva come Antonio Biasiucci e Olivo Barbieri. La mostra di Lisetta Carmi, alla quale abbiamo lavorato insieme anche se purtroppo lei non ha avuto modo di vederla, ha rappresentato un po’ l’avvio ideale, perché si è trattato di una mostra che ha presentato le tappe essenziali del suo percorso, che ha rivelato al grande pubblico una fotografa molto amata dagli addetti ai lavori, ma non così nota a livello diciamo popolare, e che ha presentato quella che considero la novità più significativa di questo ciclo, vale a dire l’intervento nella costruzione dell’identità della mostra di un personaggio proveniente da un mondo diverso da quello fotografico. In questa occasione Alice Rohrwacher ha realizzato, ad esempio, un video a Genova in via del Campo, la strada resa celebre da una canzone di Fabrizio De André ma che è stata il luogo dove Lisetta Carmi ha scattato tante delle sue fotografie più conosciute, quelle confluite nel volume I travestiti. 

Mimmo Jodice, «Testa di Apollo, Baia», 1993

Perché ha scelto questa modalità, quale è l’intenzione di questi interventi esterni? 
Ho sempre amato le contaminazioni, e penso che attraverso di esse si possano anche rinnovare i modi di presentare e di far conoscere l’opera di un artista, in particolare di un fotografo. Penso, e mi auguro, che possano anche essere degli stimoli per le persone coinvolte, che si trovano ad affrontare temi e linguaggi che magari non sono abitualmente al centro della loro attenzione. Questo è accaduto ad esempio quando abbiamo chiesto a Mario Martone di collaborare alla realizzazione della mostra di Mimmo Jodice: il regista ha realizzato un documentario che poi è stato presentato anche al Torino Film Festival, vivendo di vita propria ma al contempo portando fuori dallo spazio espositivo tradizionale il protagonista della mostra e le sue immagini. In occasione della mostra di Antonio Biasiucci invece l’intervento di Mimmo Paladino ha rappresentato il nuovo capitolo di una collaborazione di lunga data tra i due artisti; ogni mostra fa storia a sé, come ogni rapporto tra persone ha le sue caratteristiche. 

Nella mostra di Barbieri però questa contaminazione non c’è…
La mostra di Barbieri (sulla Cina) è diversa da tutte le altre: non si sono create le condizioni per realizzare questo tipo di collaborazione, e quindi non abbiamo voluto forzare la mano, deve essere una cosa naturale, non un’imposizione. Inoltre, in questa mostra c’è una serie unica, quella concentrata sul rapporto trentennale del fotografo con il Paese asiatico, è uno spaccato diverso rispetto a quello retrospettivo delle mostre precedenti. Anche lo spazio espositivo si è modificato ogni volta, tutto è in divenire. 

Dopo questi anni, è possibile fare un primo consuntivo, sebbene ovviamente non definitivo?
Penso di sì, mi pare che al di là dell’affluenza e della soddisfazione del pubblico, gli aspetti più positivi risiedano proprio nella formula stessa dell’iniziativa. Il fatto di dare continuità a un lavoro, di evitare l’intervento spot è un elemento cruciale, perché sostanzialmente ogni passo rafforza i precedenti e quando il ciclo sarà concluso si avrà una visione d’insieme della fotografia italiana all’interno di una cornice di questo livello. Certo, tutto si può migliorare, ma l’inizio mi pare più che soddisfacente.

Uno degli elementi di forza del progetto artistico di Intesa Sanpaolo sono le sue collezioni, da quella sull’arte dell’Otto e Novecento italiani alla Collezione Agrati, fino ai nuclei delle icone russe e di Publifoto. A proposito di fotografia italiana, anche Walter Niedermair è entrato nelle collezioni Intesa Sanpaolo proprio con delle opere commissionate in occasione dei lavori di recupero degli spazi di piazza San Carlo. Ci sono state acquisizioni anche in occasione di queste mostre? 
Sì, non so dire con precisione quali e quante opere, ma di sicuro sono stati acquisiti nuclei di ognuno degli autori esposti, dai «Travestiti» di Carmi e da «Mediterraneo» di Jodice. Credo si tratti di un dato estremamente importante, perché da un lato dimostra una volta di più la visione a lungo termine di questo progetto, dall’altro per la condizione specifica, direi proprio per la storia della fotografia italiana, l’acquisizione da parte di un’istituzione è un fatto fondamentale, è uno dei tasselli che sono sempre mancati, o quanto meno sono stati più deboli, nello sviluppo del sistema fotografico italiano. Fra l’altro, mi piace il fatto che queste opere dialoghino direttamente con i dipinti, le sculture, le installazioni già presenti nelle collezioni di Intesa Sanpaolo, chi si occupa di fotografia sa per quanto tempo questa forma espressiva sia stata considerata la sorella minore delle arti maggiori, anche dal punto di vista collezionistico. Vedere le opere di Olivo Barbieri presentate ad Artissima quest’anno ha rappresentato una bella soddisfazione, credo, per tutti gli appassionati di fotografia. 

Antonio Biasiucci, «Natura», 2021. © Antonio Biasiucci

Penso che quello che lei dice sia molto giusto e possa aprire sul capitolo più ampio dei benefici che l’impegno di Intesa Sanpaolo nei confronti della fotografia, direi non solo italiana ma tout court, può portare, o meglio sta già portando, a tutto il sistema. Sappiamo bene come le difficoltà nel far conoscere la fotografia italiana nel nostro Paese e soprattutto all’estero siano dipese, e ancora dipendano, in gran parte dall’assenza di istituzioni capaci di confrontarsi alla pari con quelle di Francia e Germania, per non parlare degli Stati Uniti. Aanche se qui siamo di fronte a una realtà privata e non pubblica, va detto che in termini di progettualità, posizionamento ed economie l’investimento si configura come di portata, per l’appunto, istituzionale.
Credo che l’entrata in scena di Intesa Sanpaolo abbia letteralmente cambiato il panorama della fotografia italiana. Già con la nascita di Camera e con il lavoro svolto dal Centro torinese in questi dieci anni (di cui Intesa Sanpaolo è socio fondatore e principale sostenitore insieme a Eni e a Lavazza, Ndr) si sono visti i primi frutti, non c’era mai stata prima una tale stabilità e solidità alla base di un progetto focalizzato sulla fotografia. Penso anche all’esperienza che ho vissuto in prima persona a Milano con «Forma» negli anni Duemila, che è terminata, dopo anni di buoni risultati, per mancanza di volontà politica. Tu nomini la Germania, quello potrebbe essere un modello, più della stessa Francia che ha una storia fotograficamente a sé stante: in Germania quando negli anni Ottanta si è mosso l’intero sistema, all’interno del quale le banche hanno svolto un ruolo decisivo, i risultati si sono visti in tempi brevi, e la fotografia tedesca negli anni Sessanta e Settanta è diventata una delle più importanti al mondo. La cosa fondamentale adesso è proprio sfruttare questo stimolo, fare in modo di trasformare un mondo che tendenzialmente è molto individualista in una vera e propria comunità. 

L’individualismo spesso è figlio proprio della necessità, primum vivere si potrebbe dire, parafrasando gli antichi… Quindi, ci prepariamo a un prossimo triennio di mostre, a partire da quella ancora in corso di Olivo Barbieri: quali le prospettive? Qualche anticipazione ? 
Nel progetto che ho presentato a Michele Coppola prima ancora dell’apertura di Gallerie d’Italia ho inserito circa una trentina di nomi, la scelta è ampia, quindi vediamo su quali andremo a cadere, le varianti sono tante, la fortuna è che autori e autrici di qualità non mancano di sicuro. Proprio a partire dalla mostra di Barbieri mi piace sottolineare una novità importante, vale a dire il cambio di casa editrice, con il conseguente raddoppio della scommessa di Intesa Sanpaolo: un’altra sfida importante, un’altra tessera del mosaico, che per noi significa avere la possibilità di realizzare cataloghi più corposi. Anche questo è un elemento cruciale nel percorso, perché è chiaro che la mostra è importante, ma quello che rimane nel tempo è il catalogo, e più hai la possibilità di realizzare un volume corposo più l’intera operazione acquista di valore, anche scientifico. Ovviamente è tutto collegato, bisogna guardare il quadro intero, oltre ai singoli particolari che lo compongono.

I cataloghi tra l’altro rappresentano la memoria di una mostra, così come le acquisizioni, che segnano la continuità del progetto, trasformano la mostra in un passaggio verso qualcosa di più duraturo, destinato al futuro, proprio alle generazioni future: può essere questa un’altra chiave di lettura di questo progetto?
Senza dubbio, in tutta questa vicenda la memoria ricopre un ruolo importante: la scelta di iniziare con due autori della generazione storica della fotografia italiana ha anche questo significato, la volontà di sottolineare come sia necessario portare alla luce determinate figure e lasciare memoria del loro lavoro, della loro opera e del loro pensiero. Poi, senza dubbio la volontà è quella di andare avanti, la memoria è il motore per pensare al futuro; con Biasiucci e Barbieri abbiamo iniziato a presentare una generazione successiva, e l’intenzione è quella di andare anche verso la contemporaneità, cercando di fornire un panorama il più articolato possibile, ma senza la pretesa di esaurire un argomento così vasto. 

Olivo Barbieri, «Qufu, China, 2019». © Olivo Barbieri

Walter Guadagnini, 16 maggio 2025 | © Riproduzione riservata

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