Paesaggio durante la catastrofe alla Biennale del Whitney

A New York la periodica mappatura dell’arte americana conferma la sua linea orientata verso i problemi del presente. Per arrivare alla luce si passa dal buio di un labirinto

Un’opera della serie «Vibratory Cartography: Nepantla» (2021-22) di Lisa Alvarado
Federico Florian |  | New York

«Il barometro dell’arte contemporanea in America», l’ha definita Adam D. Weinberg. La Biennale del Whitney, difatti, non solo è la rassegna più prestigiosa su suolo statunitense ma, come suggerisce Weinberg (il direttore del museo newyorkese), è anche uno strumento essenziale e particolarmente sensibile per misurare la temperatura dell’arte di oggi.

Fondata nel 1932 da Gertrude Vanderbilt Whitney, questa grande collettiva compie ogni due anni una mappatura di alcune delle tendenze artistiche contemporanee più interessanti in corso nel continente americano «Quiet as It’s Kept» è il titolo dell’edizione 2022 (visitabile dal 6 aprile al 5 settembre), l’ottantesimo appuntamento dalla sua fondazione. Un ironico invito alla riservatezza (il titolo, infatti, è traducibile con l’espressione «Questa cosa non si può dire»), che sembrerebbe cozzare con la vera intenzione della mostra: mettere allo scoperto i nodi e le criticità del mondo in cui viviamo, attraverso le opere di 63 artisti e collettivi diversi.

«La Biennale del Whitney è un esperimento continuo e il risultato di una vera dedizione agli artisti e al loro lavoro, spiegano i curatori David Breslin e Adrienne Edwards. Abbiamo cominciato a pianificare la mostra, inizialmente programmata per il 2021, circa un anno prima delle elezioni del 2020: prima della pandemia e del lockdown, prima delle proteste a favore dell’eguaglianza e della giustizia razziale, prima che le istituzioni e le loro strutture venissero messe radicalmente in questione. La rassegna che abbiamo organizzato vuole rispecchiare la precarietà del nostro tempo e i lavori in mostra riflettono i misteri, le perplessità e le domande fondamentali dei loro creatori».

Dipinti, sculture, installazioni, video e performance popolano due piani del museo in un allestimento fluido e dinamico, che muterà nel corso dell’esposizione. E mentre il quinto piano assume la conformazione di un labirinto immerso nell’oscurità, il piano superiore è un luogo ampio, inondato di luce. Forse, un’allegoria dell’arte come strumento di liberazione e illuminazione. Piuttosto che affidarsi a un tema specifico, i curatori hanno optato per un formato aperto, in cui si alternano riflessioni di natura diversa: da un’analisi dei concetti di confine e di identità americana (come rivelano opere di artisti nativi o messicani) alla nozione di «attualità», e di come il presente lo si possa re-immaginare alla luce di modelli artistici ignorati o sottaciuti dalla storia dell’arte ufficiale.

Tra gli autori più noti, Yto Barrada, Tony Cokes, Alfredo Jaar, Charles Ray e Lucy Raven. In tutta la rassegna, inoltre, ricorre il simbolo di due parentesi tonde invertite, tratto da un componimento del 1968 del poeta d’avanguardia N.H. Pritchard (il cui manoscritto originale è incluso in mostra). Un simbolo che condensa in due caratteri tipografici lo spirito di questa biennale: la sua propensione «all’apertura, ad andare al di là di quanto è contenuto, in direzione dell’incontenibile» nelle parole dei curatori.

© Riproduzione riservata «La Horda» (2020) di Andrew Roberts «Ishkode» (2021) di Rebecca Belmore
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