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Federico Florian
Leggi i suoi articoliDopo tre mesi dal lockdown del 23 gennaio varato dal Governo cinese alcuni attori della scena istituzionale dell’arte in Cina tornano gradualmente alla vita, seppur con varie limitazioni. La Power Station of Art di Shanghai, il primo museo statale del Paese dedicato all’arte contemporanea, ha riaperto i battenti il 13 marzo.
«Sterilizziamo gli spazi ogni giorno secondo le linee guida ufficiali, e tutto lo staff è stato formato sul protocollo da seguire, dichiara un portavoce. Abbiamo anche allestito un’area per la quarantena temporanea su ogni piano, in caso di emergenza. A tutti i visitatori [per un massimo di mille ammessi giornalmente] viene misurata la temperatura, e ciascuno deve presentare il proprio documento di identità e codice sanitario prima di entrare».
La Cina, inoltre, ha lanciato un’app per verificare gli spostamenti degli utenti e documentare ogni possibile esposizione al virus. Le norme di distanziamento sociale sono ancora in pieno vigore: i visitatori della Power Station, previa prenotazione obbligatoria del biglietto online, devono indossare mascherine e mantenere una distanza di 1,5 metri l’uno dall’altro.
Anche il programma espositivo ha subito variazioni: se la mostra con le opere dalla collezione era stata prorogata fino al 17 maggio, a fine mese il museo ospita una selezione di poster realizzati da grafici internazionali in risposta allo scoppio dell’epidemia. A seguire, a giugno, un progetto sulla storia della Biennale di Shanghai.
Mascherina e termometro
Il 13 marzo ha riaperto anche lo Shanghai Museum, il primo museo statale cinese a chiudere i battenti lo scorso gennaio, con prenotazioni online via WeChat e un limite di 2mila visitatori giornalieri (e 300 per volta). Anche qui vige l’obbligo di misurare la temperatura, e il tempo di visita non può superare le due ore.
Parrebbe che i musei statali siano stati i più preparati nel rispondere all’epidemia Covid-19: una lezione che i musei cinesi hanno forse imparato a seguito dello scoppio della Sars nel 2003, anno in cui molte delle istituzioni private cinesi non erano ancora nate, e per cui questa rappresenta la prima crisi sanitaria. Mentre Prada Rong Zhai ha posticipato a novembre la personale di Alex Da Corte, molte sono le gallerie commerciali di Shanghai ad aver ripreso le operazioni: fra queste, Almine Rech, Edouard Malingue, Art+Shanghai e ArtCN.
Hanno aperto anche il Centre Pompidou x West Bund, inaugurato lo scorso novembre nell’edificio di 25mila mq progettato da David Chipperfield, e lo Yuz Museum nello Xuhui District. La megalopoli di quasi 25 milioni di abitanti, lentamente, si risolleva.
Meditare sull’emergenza
Nella capitale Pechino dal primo maggio cinquemila visitatori al giorno possono nuovamente entrare nel Museo del Palazzo della Città Proibita (una meta che in tempi normali ne attirava fino a 19 milioni all’anno). Il biglietto dev’essere prenotato online, accompagnato da un codice digitale da cui risulta che l’acquirente non si è recato di recente in zone a rischio.
All’ingresso del museo, per ora accessibile solo in parte e in determinate fasce orarie, ulteriori controlli, tra cui quello della temperatura. Il mondo dell’arte riprenderà le proprie attività a partire dalla seconda metà di maggio. Il Gallery Weekend Beijing, il più importante festival d’arte contemporanea della città, programmato per marzo, ha ora luogo dal 22 al 31 maggio.
L’UCCA Center for Contemporary Art, invece, ha fissato il «grand opening» post Covid-19 al 21 del mese. «Siamo impazienti di accogliere di nuovo i nostri visitatori, dichiara il direttore Philip Tinari. Nessuna mostra è stata cancellata, ma alcuni fra i progetti più ambiziosi sono stati rinviati al 2021»: fra questi, la personale di Cao Fei e una collettiva sulla scena artistica negli anni ’80 a New York, a cura di Carlo McCormick.
«A Pechino, continua Tinari, riapriremo con “Meditations in an Emergency”, un progetto espositivo nato direttamente da questa situazione senza precedenti». La mostra, che prende in prestito il titolo da un’antologia di poesie di Frank O’Hara, presenta i lavori di venti artisti, cinesi e non, oltre alla documentazione di «Blue Sky Exposure», organizzata dal museo nel 2003 alla fine dell’epidemia di Sars. Un progetto che intende riflettere sulle conseguenze, in parte ancora ignote, che la fase postpandemia avrà sul modo di presentare e fruire l’arte.
«“Meditations in an Emergency” parte dal presupposto implicito che a vederla saranno visitatori dotati di mascherine, costretti a stare a due metri di distanza l’uno dall’altro; da persone la cui temperatura corporea non potrà superare i 37.2 gradi e i cui dati saranno opportunamente tracciati per verificare i loro spostamenti», dichiarano i curatori in una nota ufficiale.
M Woods, il museo privato fondato dai collezionisti Lin Han e Wanwan Lei con duplice sede (una nel 798 Art District, l’altra nel quartiere di Dongcheng) prevede di riaprire a fine maggio. Nel frattempo, la mostra virtuale «A Hypothetical Show for a Closed Museum», che intesse una riflessione su ecologia e isolamento forzato, è visitabile sul sito e sui canali digitali della fondazione.
A Hong Kong alcuni musei hanno chiuso al pubblico per la seconda volta il 23 marzo, a causa di un inaspettato aumento dei contagi nell’area. È il caso di M+ Pavilion, che ospitava l’edizione 2019 della mostra dei finalisti del Sigg Prize, e la K11 Art Foundation, lo spazio fondato dal magnate Adrian Cheng, i cui due progetti espositivi («Disruptive Matter» e «Carbon’s Casualties») sono visitabili virtualmente sul sito della fondazione. Nella vicina Foshan, il nuovo spettacolare He Art Museum, progettato da Tadao Ando, ha posticipato l’inaugurazione, prevista per il 20 marzo, a data da destinarsi.
Doppia sfida
Per le istituzioni cinesi che hanno appena riaperto, e per quelle che riapriranno a breve, la posta in gioco è alta. «Sono due le sfide maggiori che ora dobbiamo affrontare, rivela Gong Yan, direttore della Power Station of Art. Una è il “pubblico”: non dobbiamo solo aiutare i visitatori a superare le proprie paure psicologiche, ma anche limitarne il desiderio di vicinanza e comunicazione reciproca, mettendoli in guardia [da nuovi possibili contagi]. La seconda sfida è quella della “mostra”: molti progetti in collaborazione con Paesi europei e con l’America devono essere posticipati o cancellati».
Ragion per cui, in questa fase di transizione, i programmi espositivi avranno un carattere meno «cosmopolita», concentrandosi sull’arte e la cultura locali e nazionali. È la sfera digitale, al contrario, a divenire il vero contenitore di progetti internazionali: un museo immaginario e globale, accessibile dagli schermi di smartphone, iPad e pc, e immune a qualsiasi forma di contagio o epidemia.
E se, a detta di Gong Yan, «i contenuti del museo fisico e di quello online sono, in questo momento, ugualmente importanti», Tinari sottolinea come «le circostanze attuali abbiano portato a riformulare nuove possibili risposte per una vecchia domanda: in che modo un’istituzione può integrare attività online e offline?». Un quesito che, in questo tempo di crisi, occupa la mente di curatori e direttori museali di tutto il mondo.
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