Uno dei taccuini di viaggio. Foto Maria Vittoria Trovato

Image

Uno dei taccuini di viaggio. Foto Maria Vittoria Trovato

Niente racconta il Mediterraneo come Lampedusa

In questo lembo di terra vicino all’Africa «si consuma ogni genere di contraddizione possibile». Il filosofo Leonardo Caffo riflette sull’«utopia mancata» dell’isola siciliana, nella quale ha trascorso un mese con un gruppo di studenti per un workshop internazionale. Il diario della loro esperienza diventerà una mostra

Image

Redazione GDA

Leggi i suoi articoli

Te lo dicono ma tendi a non crederci. Lo vedi, resti incredulo. Lampedusa a maggio è tutta un arrivo di barche stipate fino all’inverosimile, cariche di ragazzi e ragazze abbracciati l’un l’altro più per necessità che per volontà: 1.500 euro per stare sul ponte, 1.000 per stare sulla parte più bassa ma ancora all’aperto, 500 per stare al chiuso in basso e morire di sicuro in caso di ammaraggio. Molte arrivano incinte, non perché si sono messe in viaggio per salvare i propri figli, ma perché questi figli sono il risultato di uno stupro durante la lunga tratta di terra che le condurrà dal Centro Africa ai porti clandestini della Libia.

Ho trascorso quasi un mese sull’isola, dopo averla studiata da ogni angolazione possibile sulla carta, per un workshop congiunto tra il Made Program di Siracusa e la Northeastern University di Boston: appena arrivati, dopo le circa nove ore di traghetto da Porto Empedocle, quasi per uno scherzo del destino accanto a noi un barcone di centinaia di migranti viene accolto dalla guardia di finanza e dai carabinieri perché «maggio è il mese migliore per tentare la sorte». A noi, figli di un destino migliore, tocca un piccolo bus privato che ci porterà verso il campeggio che sarà anche la nostra università a cielo aperto in questi giorni; loro, figli invece di nessuno, attesi da furgoni neri e blindati che li renderanno invisibili ai nostri occhi fino alla fine del viaggio…

«Dove sono finiti i migranti? Perché non possiamo vederli o parlare con loro?». Da tanti anni provo a fare filosofia in altri modi, senza usare le parole, forzando a più non posso l’idea stessa del concetto di educazione. Questo costa fatica, spesso rende indefinibile il proprio lavoro. Ho costruito un corso in cui l’Isola di Lampedusa è ragionata come utopia mancata, come confine di Europa intesa come spazio per i diritti morali, ma anche un corso in cui abbiamo dialogato con gli attivisti della MediterraneanHope, dell’ospedale delle Tartarughe, o in cui abbiamo tentato di realizzare un lungo diario di viaggio operando su una Moleskine in accordo alla Moleskine Foundation come se fosse il contenitore di ogni oggetto possibile volto a descrivere qualcosa di indescrivibile: su questo piccolo lembo di terra, assai più vicino all’Africa di quanto non lo sia alla Sicilia, si consuma ogni genere di contraddizione possibile.
IMG20220530134032847_130_130.jpeg
È un luogo straordinario, niente racconta il Mediterraneo nello stesso modo. In ognuno di noi alberga, silenzioso, il desiderio misterioso dell’Isola. È nascosto benissimo, e certo potrebbe capitare di non sentire mai il suo risveglio, eppure se una linea di qualche colore appare improvvisa davanti all’orizzonte del mare è impossibile non esclamare con una voce che ha il suono di tutte le voci possibili la parola magica: «Terra!». Il nostro stesso pianeta, che porta questo stesso nome di fantasia nonostante sia una palla d’acqua, è un’Isola galleggiante nel mare che chiamiamo galassia; ogni pezzo di terra è lì più o meno temporaneamente e solo in attesa di inabissarsi. Anche io sono nato in un luogo del mondo cosiddetto occidentale, la Sicilia, costantemente raccontato e vissuto come in balia degli eventi, delle dominazioni, delle correnti, del mare che prima o poi ne divorerà le coste. Un luogo totalmente «aperto», così come lo si potrebbe definire se stessimo parlando di un concetto filosofico, e dunque teso a ridefinire la propria identità a partire dall’incontro con una sua caratteristica essenziale: non esistono invasori sull’Isola, ci sono soltanto i visitatori. Lampedusa è un luogo del tutto particolare del mondo, galleggiante su una fascia convenzionale e multiculturale chiamata «Mediterraneo», ed è proprio provare a raccontare in ordine sparso questa emozione a cui abbiamo dato una forma geografica lo scopo di questo modo diverso di interpretare la funzione della filosofia.

Dalla mia posizione del Mercatore, la cartina che prova a chiudere il bacino del Mediterraneo, non si sa bene con quale convenzioni che ne muri i confini in una porzione precisa di mare-terra, ha ovviamente Lampedusa nel suo pieno centro. Le mappe non hanno (banale, ma va ripetuto)  nulla a che spartire con i territori, ne solo solo interpretazioni parziali, fantasiose, convenzionali, e hanno una loro articolata funzione cognitiva rispetto a come poi andrebbe percepito quel proprio territorio che vanno a descrivere. Il Mediterraneo, innanzitutto, è uno spazio climatico e non primariamente politico: un’entità che, nonostante molte altre cartine priverebbero di farlo, contraddice che esistano poi così differenze in un’area di mondo che va dall’Europa meridionale, al Nordafrica e infine all’Asia occidentale. Potremmo addirittura dire che ha un suo popolo, con una lingua assai più simile di quella che dovrebbe connetterli alle rispettive nazionalità, una comunicazione fatta di usanze, cibi, atmosfere, capacità di relazione. Una popolazione immensa, che negli Stati bagnati dalle acque di questa porzione di azzurro che si vede nella mappa, ammonta a circa 450 milioni di persone.

Come si distingue un migrante da un abitante stante questa prima approssimativa descrizione? È impossibile. Eppure succede. La sfida ai miei studenti, per molti giorni, è stata questa: vivere e capire un territorio a partire dall’esistenza fantasma della sua presenza più rilevante, «dove sono finiti tutti?», «com’è possibile che non li vediamo?». Il cimitero di Lampedusa è pieno di nomi assegnati a ragazzi scomparsi, ogni cosa qui profuma di passaggio improvviso.
IMG20220530134301110_130_130.jpeg
Maylis de Kerangal ha descritto, nel suo libro Lampedusa (Feltrinelli 2016), la sua visita sull’isola come un’immensa  traversata notturna durante la quale interroga un mondo in decadimento dove i diritti umani cessano per sempre di esistere. Eppure anche qui, coi ragazzi, resta difficile capirlo. Provo a farli mangiare meno e a cucinare le poche cose rimaste in dispensa senza poter mai mangiare altro. Tento di farli meditare per ore sotto il sole, di farli quasi bruciare, di modo da poter accarezzare anche solo lontanamente la sofferenza di una carnagione arsa per sempre dopo decine di ore. Mi occupo con delicatezza di accompagnarli ovunque, raccogliendo detriti surreali dalle spiagge che presto diventeranno un teatro di turisti inconsapevoli: la carta stagnola su cui i migranti si avvolgono per il freddo, giubbotti di salvataggio strampalati, sim arabe use e getta trovate sotto i sassi, e poi carte cucinate dal caldo africano con appunti di indirizzi tedeschi che chissà a che cosa sarebbero servire.

Dietro tutto ciò, ovviamente, una scommessa: siamo sicuri che non esista soprattutto una incapacità istituzionale, educativa vorrei dire, di far capire davvero anche nei modi più creativi possibili la tragedia contraddittoria di questo luogo? Un cimitero galleggiante, un inferno in cui sbarcano molte meno persone di quelle che già in Italia sono state accolte dall’inizio della guerra provenienti dall’Ucraina. Perché le università non vengono qui? Non riesco più a fare le cose di «prima», e trovo incredibile che un’esperienza come il coronavirus non abbia modificato il mondo di una virgola. Le stesse fiere, esibizioni, decisioni politiche scellerate, la cultura usata come passatempo, l’accumulo esagerato di eventi di ogni genere replicati serialmente. È come se non imparassimo mai nulla, come se potessimo soltanto mettere in pausa le cose rilevanti in attesa del prossimo colpo improvviso. Ma la vita offre in continuazione degli »altrove» possibili, delle improvvise teorie della salvezza.

Non prendere adesso queste strade, cambiando radicalmente modi di fare vivere pensare, a me sembra inspiegabile. La «questione Lampedusa», oggi catturata dalla nostra Moleskine che presto esporremo a Milano (l’8 giugno, intanto, all’Accademia di Belle Arti di Siracusa si apre  la mostra finale del progetto «Rethinking Lampedusa», Ndr), è la questione della vita come migrazione: l’unica vita possibile, a cavallo tra identità multiformi e come un fiore sudamericano è nato grazie alla sabbia del Sahara portata dalle correnti ventose. Lampedusa non è in Europa, Lampedusa è l’Europa. Torniamo tutti qui, ripartiamo da qui. Migriamo.

Lampedusa. Maria Vittoria Trovato

Uno dei taccuini di viaggio. Foto Maria Vittoria Trovato

Redazione GDA, 03 giugno 2022 | © Riproduzione riservata

Articoli precedenti

Al MoMA la retrospettiva della pioniera della performance che si vorrebbe rivedere più volte

Documenti dell’Archivio di Stato di Ancona li rappresentano nel contesto storico del regime fascista

La seconda puntata di una corrispondenza sui motivi che ci spingono a visitare i luoghi dell’arte

Le due importanti città-stato etrusche sono gemellate idealmente da ieri

Niente racconta il Mediterraneo come Lampedusa | Redazione GDA

Niente racconta il Mediterraneo come Lampedusa | Redazione GDA