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Anna Orlando
Leggi i suoi articoliCensura e discriminazione. Queste le ultime accuse di Ai Weiwei alla Lego dopo che a fine ottobre la società danese gli ha rifiutato la fornitura di mattoncini per un’installazione alla National Gallery of Victoria a Melbourne, temendo che fosse una provocazione politica contro Pechino. Parole pesanti quelle dell’artista, comprensibilmente e prevedibilmente sostenuto dai suoi numerosi fan.
Ma bisogna stare attenti alle insidie dell’attuale sistema delle comunicazioni che con un click lancia un messaggio in tutto il pianeta. La velocità e superficialità che sono proprie del web e dei social possono alimentare fraintendimenti. Per ciò che riguarda una parola, se ne può facilmente travisare il significato originario.
Si tratta davvero di censura? È corretto parlare in questo caso di discriminazione? Capace di una straordinaria amplificazione mediatica, il «Maestro», come scrivono sarcasticamente siti cinesi a lui ostili (alcuni sostengono che gli occidentali hanno trasformato Weiwei in un «Buddha vivente»; www.east-west-dichotomy.com/nolegosforweiwei-no-lego-politics-for-ai-weiwei-please) ha un’audience come pochi altri artisti al mondo.
Noi occidentali, democratici, amanti dell’arte in tutte le sue forme senza «discriminazioni»; noi che cerchiamo di accantonare le prevenzioni e gli snobismi che si accompagnano al mestiere (di critico, storico, collezionista, di amante dell’arte in generale), vorremmo che tutti gli artisti del mondo avessero a disposizione gli strumenti utili a dar sfogo alla loro creatività. Ma vorremo anche che la popolarità, di chiunque (artisti compresi), non portasse a travisare il significato, serissimo e sacrosanto, di termini di tale portata. In questo caso, Weiwei, non parlare di censura.
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