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Mimmo Jodice all'anteprima della sua mostra al Madre di Napoli. Foto di Amedeo Benestante

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Mimmo Jodice all'anteprima della sua mostra al Madre di Napoli. Foto di Amedeo Benestante

Mimmo Jodice, metafisica del tempo sospeso

Al Madre un’ampia retrospettiva sul fotografo che torna a esporre nella sua città, il primo luogo di ispirazione per il lungo viaggio in una civiltà che ha il suo cuore nel Mediterraneo

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Redazione GDA

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Napoli. Mimmo Jodice, con una vasta retrospettiva allestita al Madre dal 24 giugno al 24 ottobre, torna a esporre nella sua città, lì dove lui è nato nel 1934 e dove ha sempre voluto vivere, nonostante il lavoro e i riconoscimenti ottenuti lo abbiano portato a girare il mondo, a essere probabilmente tentato di percorrere un cammino più agevole verso fama e riconoscimenti immediati in una delle grandi metropoli del Nord d’Italia e del mondo. Ma il legame con il capoluogo partenopeo è, per Jodice, qualcosa di più di un fatto biografico, è la fonte autentica e inesauribile della sua ispirazione, è la sua visione del mondo trasformata in mondo, è il luogo che, attraverso mirino e obiettivo, trasforma la realtà di un luogo preciso e definito nella metafora dell’universo, e del nostro rapporto con esso. È da Napoli che è partito, ed è a Napoli che è sempre ritornato, anche nelle sue prime serie, quelle nelle quali si misurava subito, senza rete, con i linguaggi dell’avanguardia, mettendo in discussione il rapporto della fotografia con il reale, partendo davvero dal grado zero dell’immagine fotografica. Come se prima di guardare il mondo e di restituirlo per via di pellicole e sali d’argento bisognasse interrogarsi sulla natura della lingua, metterla alla prova a partire dalle definizioni, dai concetti. Ma i motivi erano lì, dietro casa, anzi dentro casa, la moglie Angela, gli oggetti della camera oscura, e poi appena fuori, dove stava nascendo una stagione, oggi passata alla storia, della cultura artistica napoletana.
Era il tempo delle gallerie di Lucio Amelio, di Pasquale Trisorio, di Lia Rumma, degli artisti di tutto il mondo (ma anche gli Alfano, i Bravi, i Pisani, a loro volta «enfants du pays» impegnati a esplorare nuovi territori) che passavano da e su quelle mura, e il giovane Jodice che li guardava, li ascoltava e li fotografava, testimone e protagonista allo stesso tempo, come si conviene a un fotografo tanto grande nelle intenzioni e nei risultati quanto umile nell’approccio all’arte.
Poi, la stagione dell’impegno sociale, gli anni Settanta, presentati nella mostra del Madre (che riunisce opere dal 1960 a oggi) sotto forma di proiezione, le immagini che raccontano il dramma e il fermento di una città, ma anche la capacità del fotografo di trasformare il fatto quotidiano, l’emozione momentanea, in una visione universale, grazie a una straordinaria sensibilità compositiva, affinata per anni sui testi dei grandi maestri della pittura antica e moderna. Già, perché si possono guardare, e questa è un’altra grande lezione di Jodice, Acconci e Caravaggio allo stesso tempo, si può seguire Beuys nel suo viaggio a Gibellina e poi fermarsi davanti ai Ribera e ai Caracciolo, cercando di capire gli uni e gli altri, di tutti nutrirsi e a tutti aggiungere qualcosa attraverso il proprio occhio.

È da qui, oltre che da una delusione profonda per la conclusione di quelle utopie sociali, che nasce l’artista di «Mediterraneo», uno dei cicli più importanti della storia della fotografia italiana, non solo per la strepitosa qualità delle immagini, nelle quali riprende vita una civiltà altissima, dove luoghi, sculture, edifici parlano realmente come nostri antenati e nostri compagni di viaggio, insieme lontanissimi e vicinissimi; non solo per questo, ma anche per l’ambizione sottesa a quel progetto, per l’ampiezza di una visione alla quale Jodice dedica un tempo di realizzazione lunghissimo, muovendosi, senza committenza, in tutta l’area del Mare Nostrum. Sono fotografie scattate tra anni Ottanta e Novanta, quando Jodice, insieme a Ghirri e a Basilico, diventa il punto di riferimento per un’intera generazione, uno dei pilastri sui quali si fonda la nuova concezione della fotografia italiana legata al paesaggio. Paesaggio nell’accezione più larga del termine: paesaggio della memoria, quello antico, paesaggio della riflessione, quello naturale, paesaggio della contemporaneità, quello urbano, che danno vita a quell’atteggiamento di perenne attesa e stupore che caratterizza tutte le immagini del fotografo da questo momento in avanti. Non c’è progresso, non c’è evoluzione, c’è una metafisica del tempo sospeso, che non a caso trova i suoi ultimi approdi sulle rive del mare, in un viaggio tra le isole del Mediterraneo, nelle nature morte trasfigurate del ciclo «Eden», nelle finestre aperte sul nulla delle ultimissime fotografie del ciclo intitolato appunto «Attese» (che dà anche il titolo alla mostra odierna, a cura di Andrea Viliani), nelle quali peraltro si legge anche quello straordinario dominio dello spazio che è cifra insieme di stile e di pensiero sempre presente nella ricerca di Jodice.
Un dominio dello spazio della rappresentazione attraverso il quale passa, come per incanto, la dismisura dell’emozione.

Mimmo Jodice all'anteprima della sua mostra al Madre di Napoli. Foto di Amedeo Benestante

Mimmo Jodice all'anteprima della sua mostra al Madre di Napoli. Foto di Amedeo Benestante

Mimmo Jodice, «Attesa. Opera nr. 8», 2014, stampa Fine Art su carta Photo Rag. Collezione dell’artista

Mimmo Jodice, Torre del Greco, 1990, stampa Fine Art su carta Photo Rag. Collezione dell’artista

Mimmo Jodice, Suor Orsola, 1987, stampa Fine Art su carta Photo Rag. Collezione dell’artista

Mimmo Jodice, «Attesa. Opera nr. 23», 1999, stampa Fine Art su carta Photo Rag. Collezione dell’artista

Mimmo Jodice, «Transiti. Opera 14», 2008, 2008 True Black Fine - Art Giclée su Photo Rag 100 % cotone. Courtesy Galerie Karsten Greve, St. Moritz, Paris, Köln

Mimmo Jodice, Peplophoros, Cuma 1991, stampa Fine Art su carta Photo Rag. Collezione dell’artista

Redazione GDA, 23 giugno 2016 | © Riproduzione riservata

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