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Miart illumina e si rinfresca

Michela Moro

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Con il direttore Vincenzo de Bellis (Putignano, Ba, 1977) al quarto anno del suo mandato, Miart, la fiera internazionale d’arte moderna e contemporanea che si svolge a fieramilanocity dall’8 al 10 aprile, pare aver trovato la giusta dimensione. 

Com’è cambiata la sua attitudine nell’affrontare un compito difficile per molti dei direttori che si sono avvicendati e «consumati» uno dopo l’altro?

Ho imparato a gestire il senso di responsabilità che una fiera del genere comporta. Non solo sei esposto in modo estremo, ma sei responsabile anche dell’esposizione e dell’economia di altri, in primis dei galleristi che affrontano con te quest’avventura. 

Come sono stati questi anni di «Debellizzazione» di Miart?

Il primo recruitment è stato durissimo, le gallerie italiane mi parlavano a malapena, gli stranieri in genere ignoravano la nostra esistenza. La parte più difficile è stata l’impatto con la città. Diverse istituzioni non interloquivano, il grimaldello Miart è servito a mettere tutti insieme su un progetto comune. Devo dire che con l’assessore Del Corno c’è stata un’immediata collaborazione e adesso ci sediamo tutti intorno a un tavolo per far sì che le cose si concentrino, evitando dannose sovrapposizioni. Non ho assolutamente l’ambizione di parlare di politica culturale, tra l’altro Milano è una città di cortili chiusi, riservata, ed è anche una città sulle spalle di privati le cui azioni incidono sul pubblico, penso ad esempio alle molte Fondazioni, essenziali alla vita culturale cittadina. Quando vedi che chi viene a Milano per il Salone del Mobile anticipa l’arrivo alla domenica precedente per vedere Miart, capisci che la macchina funziona.

Che cos’è successo sul territorio lombardo?

Siamo cresciuti nella presa sul pubblico generico in Lombardia ma anche nel resto d’Italia; arrivano molti più appassionati che un tempo non si spostavano, abbiamo sempre fatto visitare ai nostri ospiti il resto della regione. A livello pubblico la collaborazione con le istituzioni è eccellente: con Luigi Di Corato, direttore della Fondazione Brescia Musei, abbiamo concordato l’apertura della mostra di Christo a Brescia prima di Miart, per trarre entrambi vantaggio dal flusso internazionale di visitatori che si trovano a un’ora di distanza. Le collaborazioni sono ovunque: a Bergamo con la Gamec, a Varese con la Collezione Panza, solo per citarne alcune.

Che cosa è rimasto stabile dall’inizio del suo mandato?

Il progetto è immutato, la fiera deve essere identica a se stessa per non generare instabilità. Fin dall’inizio ho voluto un dialogo forte tra moderno e contemporaneo, perché il moderno è sempre stato una caratteristica che distingue Milano. La vera partita è stata vinta con le gallerie che propongono opere significative e non vivono solo di secondo mercato. Il design all’inizio ha stentato, ma perseverare ha pagato e quest’anno ha una marcia in più. Ho mantenuto a 150 il numero delle gallerie, aumentandone la qualità, tra queste 40 partecipano ad Art Basel. 

Ci sono delle novità?

La costanza ci ha premiato, siamo cresciuti anche nel contemporaneo ma c’è sempre bisogno di una rinfrescata. Con Alberto Salvadori, curatore della sezione Decades, abbiamo identificato alcune gallerie con progetti da «illuminare» divisi per decenni dal 1910 al 1990. Il mercato premia alcuni momenti storici dell’arte italiana, dagli anni ’50’ ai ’70, ma volevamo valorizzare fenomeni di altre decadi qualitativamente importanti e ancora non così «caldi». È un omaggio alle gallerie che hanno un ruolo di produzione culturale e non solo commerciale. Qualche esempio: Sperone Westwater propone un repêchage dell’astrazione italiana degli anni ’20 e ’30, Michael Werner ci porta nel mondo storicizzato della picture generation degli anni ’80, Wilkinson espone opere legate alla rivista Carnet del 1984, e per gli anni ’90 c’è un focus dello Studio Guenzani con lavori degli artisti di allora: Cindy Sherman, Stefano Arienti e Charles Ray tra gli altri.

La crisi tanto paventata è adesso all’orizzonte?

Il momento è delicato, ci aspettiamo una contrazione di circa il 20%, del resto le aste hanno già registrato un ribasso. Ci sarà la crescita dei grandi artisti e mid-career riconosciuti dalle istituzioni, mentre sull’arte contemporanea si tornerà a far la gavetta, la bolla speculativa sui giovani ha fatto il suo tempo.

Ci saranno ripercussioni anche sulle fiere?

Sì anche sulle fiere, che sono cresciute come funghi, ma chi ha deciso di contenersi è meno esposto. Con solo 150 gallerie subiamo meno i contraccolpi del mercato; Miart non produce grandi utili ma è un fiore all’occhiello di Fiera Milano, che concorda negli investimenti e nella decisione di mantenerla piccola. 

Michela Moro, 06 aprile 2016 | © Riproduzione riservata

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